A fine marzo si è diffusa la notizia relativa a un errore nel funzionamento di un’app-spia utilizzata, per conto di varie Procure, a fini intercettativi, che avrebbe comportato l’acquisizione delle conversazioni di circa un migliaio di cittadini italiani, non indagati. La vicenda ha dimostrato, ancora una volta – dopo il precedente “Hacking Team” del 2015- l’intrinseca pericolosità del ricorso, a fini intercettativi, di software potenzialmente capaci di acquisire l’intero contenuto del dispositivo su cui sono installati, di realizzare un controllo ubiquitario sulla persona in quanto capaci di seguirla e registrarne l’attività in ogni luogo e contesto (se installati, come avviene nella maggior parte dei casi, su dispositivi mobili) e in alcuni casi anche di cancellare le tracce delle operazioni svolte, in maniera occulta. Ma soprattutto, con la recente vicenda “Exodus” si è dimostrata l’ulteriore, estrema pericolosità del ricorso, a fini intercettativi, ai software connessi ad app che, come tali, non siano direttamente inoculati nel solo dispositivo dell’indagato, ma siano posti su piattaforme (come Google play store) accessibili a chiunque. Lo ha rilevato efficacemente il Garante per la protezione dei dati personali, sottolineando come, qualora queste app-spia siano rese disponibili sul mercato, per errore in assenza dei filtri necessari a limitarne l’acquisizione da parte dei terzi, esse rischino di trasformarsi in pericolosissimi strumenti di sorveglianza massiva. Pertanto, in una segnalazione al Parlamento e al Governo del 30 aprile 2019, l’Autorità ha invitato il legislatore a valutare l’opportunità di introdurre un espresso divieto di utilizzo di tali software, non contemplato dalla “riforma Orlando” (dlgs 216/2017) la cui efficacia, del resto, è stata già due volte differita al 31 luglio prossimo.
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