Dallo Ius migrandi all’integrazione

Scritto da: Mauro Valeri

Aggiornato al: 30/04/2019

Il punto della situazione


Secondo l’ISTAT, i cittadini stranieri regolarmente residenti in Italia al 1 gennaio 2018 erano 5.144.440, pari all’8,5 per cento del totale dei residenti. Di fatto, è un dato ormai pressoché stabile dal 2015, quando per la prima volta è stata superata la soglia dei 5 milioni. Tuttavia, sebbene rispetto al 2017 le presenze siano aumentate di poco meno 100.000 unità, per provare a dar conto dei molteplici cambiamenti che hanno contraddistinto i recenti flussi migratori e comprendere lo stato dei diritti degli stranieri, è bene distinguere quel dato generale, così come proposto in passato, in almeno tre differenti categorie.

La prima categoria è composta da cittadini “comunitari”, ovvero cittadini di un Paese dell’Unione Europea (e quindi titolari di un permesso di soggiorno permanente), che rappresentano il 27,8% (poco più di 1,4 milioni) degli stranieri residenti in Italia, con una netta prevalenza ancora della Romania, con 1.190.091 residenti. Rispetto agli ultimi anni, il dato generale è in leggera diminuzione, ma nei prossimi anni il suo trend sarà condizionato dall’eventuale ingresso nell’Unione Europea di altri paesi.

La seconda categoria è invece composta dagli stranieri “non comunitari” o di Paesi terzi – cioè cittadini di un Paese non dell’Unione Europea, ma molti di un Paese europeo - in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, pari a ben il 44,7% (circa 2,3 milioni) del totale degli stranieri residenti. In questo caso, si ha una conferma, se non un leggero aumento, rispetto agli anni precedenti , a ulteriore dimostrazione della stabilizzazione raggiunta da una quota molto importante dei migranti. In base ai tradizionali processi di integrazione, è probabile che il numero di “lungosoggiornanti” non comunitari sia destinato se non ad aumentare quantomeno a non diminuire..

La terza categoria invece riguarda i cittadini di un Paese terzo con un permesso di soggiorno diverso da quello di lungo periodo, che rappresentano il restante 27,5% (poco più di 1,4 milioni), e che segnano un leggero aumento rispetto al passato.

Per quanto riguarda i cittadini di un Paese terzo (lungosoggiornanti e non), i nuovi permessi di soggiorno sono stati 262.770 (+16%), rilasciati soprattutto per ricongiungimento familiare (circa 114.000, pari al 43,2%, con un aumento di 11.198 unità). Visti i requisiti piuttosto stringenti necessari per ottenere il ricongiungimento familiare, è evidente che anche questo dato sia un indicatore di una migrazione ormai stabile. Assai limitati invece i nuovi permessi rilasciati per motivi di lavoro (12.200, pari al 4,6%).

Da questo primo esame, possiamo quindi dedurre che ben il 72,4% (cioè circa 3 su 4) dei cittadini stranieri regolarmente residenti in Italia sono cittadini o dell’Unione Europea o lungo soggiornanti, cioè soggetti con che beneficiano di una notevole tutela.

Questo scenario è il frutto di un processo di integrazione che, in assenza di un riferimento specifico ad un modello particolare, si è basato essenzialmente sul fattore temporale e su requisiti lavoristici: il migrante iniziava il suo percorso d’integrazione con un permesso di soggiorno “debole”, ma convertibile, che, a seguito di un soggiorno regolare, nel corso degli anni poteva trasformarsi in un permesso di soggiorno via via più “forte”, fino ad arrivare al permesso di lungo periodo e alla possibilità di acquisire la cittadinanza italiana. Nel sistema di diritto italiano, a parte la categoria dei “comunitari” che è vincolata ad accordi internazionali, un passaggio fondamentale è rappresentato proprio dal riconoscimento del permesso di lungo periodo, da sempre uno dei capisaldi dei processi di integrazione, come ribadito dalle direttive 2003/109/CE e 2011/51/UE, che si ottiene dopo cinque anni di soggiorno regolare ed ininterrotto, un reddito superiore all’importo annuo dell’assegno sociale, il superamento di un apposito test di conoscenza della lingua italiana e la dimostrazione di avere un’idoneità alloggiativa. Oltre ad essere un permesso a tempo indeterminato (revocabile solo in casi particolari), può anche essere ottenuto per i familiari, sempre fatto salvo la dimostrazione di avere un reddito e un’idoneità alloggiativa adeguati alla composizione del nucleo familiare.

Il contributo degli stranieri


Nonostante la crisi economica, gli stranieri regolarmente soggiornanti continuano a svolgere un ruolo positivo proprio sul piano economico. Infatti, secondo l’Ottavo Rapporto Annuale 2018 “Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia” curato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - che tiene conto delle variazioni rilevate tra il 2016 e il 2017 - emergono tre fenomeni: a) un aumento del numero di occupati stranieri sia dell’Unione Europea (+0,1%), sia soprattutto di Paesi terzi (+1,3%), in sintonia con un aumento del numero di occupati italiani (+1,2%); b) una netta diminuzione del numero di cittadini stranieri in cerca di lavoro (-7,4% dell’UE; -7,0% di Paesi terzi), che rappresenta una contrazione maggiore rispetto alla variazione tendenziali dei cittadini italiani (-2,9%); c) una diminuzione dei cittadini stranieri inattivi (-0,5% dell’UE e -3,6% di Paesi terzi). A rendere questo quadro più critico è però l’incremento, tra i lavoratori stranieri, degli infortuni professionali, soprattutto mortali, che nel 2017 hanno rappresentato il 16,3% del totale (168 su 1.029), laddove l’incidenza percentuale dei lavoratori stranieri occupati è pari al 10,5%. Come ha evidenziato la Fondazione Moressa nel suo “Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione” (2018), i 2,4 milioni di stranieri occupati producono un valore aggiunto pari a 131 miliardi (8,7% del valore aggiunto nazionale), sebbene la maggior di loro svolga lavori poco qualificati (e quindi faticosi e poco retribuiti), mentre gli occupati italiani si collocano nelle professioni più qualificate. “Non è da sottovalutare nemmeno l’apporto degli imprenditori stranieri che rappresentano il 9,2% del totale imprenditori, dato in crescita negli ultimi cinque anni del 16,3% in controtendenza con la diminuzione degli italiani (-6,4%)”. Come osserva ancora la Fondazione Moressa, il contributo previdenziale degli stranieri occupati “è pari a 11,9 miliardi di euro che aiuta a finanziare il nostro sistema di protezione sociale […] Un aumento della mobilità sociale degli stranieri inciderebbe in modo positivo sull’impatto fiscale”.

Altro tema centrale circa il contributo degli stranieri riguarda la situazione demografica, perché, stante l’attuale trend di bassa natalità, ad essere a rischio è la sostenibilità economica futura dell’Italia, dato che alla diminuzione della popolazione attiva (dai 15 ai 64 anni), corrisponde un aumento di quella con almeno 65 anni, cioè inattiva. Anche in ciò, una valorizzazione degli stranieri regolarmente presenti, in genere più giovani e con un saldo naturale positivo, potrebbe rappresentare una soluzione che potrebbe portare benefici per tutti. Invece, per motivi che rimandano a prese di posizione più attente a sollecitare il consenso politico che non a una valutazione razionale del presente e del futuro, nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti, o almeno di una parte consistente di essi, si continua a presentarli come se fossero un “peso”, una presenza “fastidiosa”, nei cui confronti adottare misure discriminatorie. Lo slogan “E’ finita la pacchia!” sembra avere lo scopo di presentare i diritti acquisiti dagli stranieri come privilegi ottenuti in maniera non lecita, che quindi vanno limitati se non abrogati. C’è anche da evidenziare che tentativi simili si erano registrati già negli anni passati, magari non accompagnati da slogan di propaganda, e già più volte i Tribunali e le Corti erano intervenuti per ristabilire il principio di uguaglianza e di non discriminazione. Ma è evidente che ciò non sia servito ad evitare il perpetuarsi di ulteriori tentativi in tal senso.



I requisiti accessori solo per gli stranieri

Una modalità piuttosto diffusa per limitare i diritti degli stranieri (anche se lungosoggiornanti), è di vincolarli a requisiti accessori, primo fra tutti la residenza decennale sul territorio regionale (ma in alcuni casi anche comunale). Contro questo approccio discriminatorio, ancora nel 2018 si è espressa la Corte Costituzionale in almeno tre sentenze. La prima (106/2018), su ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri depositato ad agosto 2017, ha ritenuto incostituzionali alcuni articoli della L.R. Liguria 13/2017 sull’accesso all’edilizia pubblica, poiché avevano previsto (modificando la L.R 10/2004 e la L.R. 38/2007) requisiti di accesso differenziati per italiani e stranieri. Per questi ultimi, mentre in passato veniva richiesto il permesso di lungo periodo o il permesso almeno biennale per coloro che esercitavano una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, nella modifica veniva richiesta che fossero “regolarmente residenti da almeno dieci anni consecutivi nel territorio nazionale in regola con la normativa statale in materia di immigrazione”. In questo caso, la Corte ha evidenziato la violazione dell’art.11 della direttiva 2003/109/CE secondo la quale il soggiornante di lungo periodo “gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda […] le procedure per l’ottenimento dell’alloggio”.

Con la seconda sentenza (107/2018), la Corte Costituzionale, su ricorso del precedente Governo, ha dichiarato l’incostituzionalità della L.R. Veneto del 21 febbraio 2017, n.6, nella parte in cui attribuiva la precedenza per l’accesso agli asili nido regionali ai “figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno 15 anni o prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno 15 anni”. A differenza della sentenza precedente, in questo caso il requisito del “radicamento territoriale” dei genitori colpiva non solo gli stranieri ma anche gi italiani che non avevano i requisiti richiesti, ponendo una discriminazione anche in materia di libera circolazione delle persone tutelata dalla stessa Costituzione. E’ qui interessante evidenziare che, come riportato dalla stessa sentenza, l’argomento secondo il quale è giusto premiare coloro che da più tempo contribuiscono alle finanze della Regione, è da ritenersi inammissibile, perché il dovere tributario non può avere finalità commutative, essendo “una manifestazione del dovere di solidarietà sociale” e volto a tutelare, nel caso delle prestazioni sociali, l’accesso a coloro che ne hanno più bisogno.

La terza sentenza (166/2018) ha riguardato la delibera della Giunta della Regione Lombardia relativa al bando sul “fondo sostegno affitti”, un contributo economico alla locazione riservato alle famiglie in condizioni di povertà (cioè con un ISEE inferiore ai 7.000 euro), che consente di ottenere una somma pari a due canoni di locazione, con un massimo di 1.200 euro. Nel bando predisposto dalla Regione, per (tutti) gli stranieri veniva richiesto non solo il requisito della residenza di almeno 10 anni in Italia o 5 nella regione, ma anche dell’esercizio di “regolare attività lavorativa”. La Corte Costituzionale ha invece dichiarato l’irragionevolezza, e quindi l’incostituzionalità, del requisito di lungo residenza, mentre la Corte d’Appello, il 4 dicembre 2018, ha ritenuto discriminatorio anche il requisito dell’esercizio di “regolare attività lavorativa”, obbligando così la Regione a riscrivere il bando.


Un altro tentativo di applicare una discriminazione indiretta, volta a limitare i diritti dei migranti, è di vincolare l’erogazione di alcune prestazioni sociali agevolate alla presentazione di documenti che, in pratica, gli stranieri hanno particolari difficoltà, se non impossibilità, a reperire. Il caso mediaticamente più noto ha riguardato l’iniziativa del Comune di Lodi (ma adottata anche da diversi altri Comuni), che ad ottobre 2017 aveva emanato un Regolamento in cui l’erogazione di presentazioni scolastiche agevolate (nel caso specifico la mensa scolastica e lo scuolabus) era vincolata alla richiesta, agli stranieri di Paesi terzi, di produrre documentazione relativa al paese di origine (possesso di case, conti correnti, automobili, ecc.), aggiuntiva rispetto a quella richiesta per l’ISEE, in contrasto sia con la procedura ISEE fissata da una norma nazionale (DPCM 159/13), sia con il principio generale di parità di trattamento nei rapporti con la Pubblica amministrazione. Inoltre, il meccanismo di controllo sulla veridicità delle dichiarazioni delle ISEE si basa elusivamente sui dati in possesso dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, fatto che rende impossibile per la pubblica amministrazione svolgere controlli non solo sui beni all’estero dei cittadini di Paesi terzi, ma anche di quelli dei cittadini comunitari e italiani. Ad essere discriminate erano state oltre 200 famiglie di Paesi terzi. A sua difesa, il Comune di Lodi aveva ribadito che di fatto quelle richieste erano assolutamente identiche per tutti i cittadini italiani e stranieri, una neutralità che nascondeva però una discriminazione. A seguito di un ricorso avanzato nel giugno 2018 da ASGI e NAGA, il 13 dicembre la prima sezione civile del Tribunale di Milano, ha riconosciuto che il Regolamento del Comune di Lodi era discriminatorio, obbligando così il Comune a modificare i criteri di accesso a quelle prestazioni. Il Comune ha rinunciato al ricorso, così come altri Comuni che avevano adottato “il modello Lodi”, per evitare ricorsi simili, hanno preferito “congelare” l’adozione di medesime misure. Ciò non toglie che, negli ultimi giorni di dicembre, il Comune di Pisa ha annunciato di voler adottare una politica che favorisca i cittadini italiani per ciò che attiene l’assegnazione di case popolari (riproponendo il “modello Lodi”), l’accesso ai nidi e gli aiuti provenienti da un fondo creato con le donazioni dei cittadini (con relativa deduzione del reddito), per sostenere le famiglie in gravi situazioni di disagio economico, in consapevole contrasto, ancora una volta, sia con le leggi nazionali che con i trattati dell’Unione Europea, costituzionalmente vincolanti.

L’accesso al pubblico impiego solo per gli italiani

Un altro tema affrontato nel 2018, sempre riguardante la discriminazione istituzionale, è il limite di accesso agli stranieri nel Pubblico impiego. Va ricordato che l’art.45 TFUE, nel prevedere il principio della libera circolazione dei lavoratori e il divieto di ogni forma di discriminazione fondata sulla nazionalità, prevede, quale deroga, al comma 4, solo l’ipotesi di impieghi nella pubblica amministrazione. Come ha poi evidenziato la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, tale deroga è da ritenersi ammissibile solo nel caso concerna posizioni comportanti partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei pubblici poteri e abbiano a che fare con la tutela di interessi generali dello Stato. Inoltre, per quanto riguarda la normativa nazionale, la fonte primaria è rappresentata dall’art.38 del D.lgs 165/01, che prevede espressamente la possibilità di accesso ai posti di lavoro presso pubbliche amministrazioni per i cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea, sempre nel caso non siano implicati in esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri o non attengano alla tutela dell’interesse nazionale. Il comma 2 di tale disposizione, ha poi demandato ad un DPCM l’individuazione di posti e funzioni per i quali non si può prescindere dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini. Il problema nasce dal fatto che, ad oggi, tale DPCM non è stato emanato, rimanendo pertanto quale unica disposizione di fonte secondaria cui eventualmente rifarsi il DPCM 174/1994, che è in evidente contrasto sia con l’art.38 del D.lgs 165/01 sia con l’art.45 TFUE.

Tutto ciò ha contribuito a generare una certa confusione, che a volte maschera una precisa volontà discriminatoria, su quale sia l’impiego che ricade nell’ambito delle funzioni che gli Stati membri possono legittimamente riservare ai soli cittadini. Anche in questo caso è interessante ricordare alcune ordinanze.

Il Tribunale di Torino, con ordinanza del 18 maggio 2018, ha dichiarato discriminatoria la condotta posta in essere da ASTER spa – Azienda Servizi Territoriali di Genova, interamente partecipata dal Comune, per aver limitato l’assunzione ai soli cittadini italiani o cittadini dell’Unione europea, attraverso un bando per apprendisti operai addetti alla manutenzione del verde pubblico. Il Tribunale, oltre a condannare l’ASTER al pagamento delle spese di lite, ha ordinato la riapertura del bando, “indicando che è consentita la partecipazione a tutti i cittadini di Paesi terzi in possesso di un titolo di soggiorno che consenta l’accesso al lavoro e fissando un nuovo termine per la presentazione delle relative domande”.

Altre due ordinanze hanno una particolar rilevanza perché hanno condannato il Ministero della Giustizia per bandi adottati nel corso della precedente Legislatura, basati su un’interpretazione, assai dubbia, del DPCM 174/1994 che escluderebbe i non cittadini italiani da qualsiasi lavoro presso il Ministero. La prima ordinanza è del Tribunale di Milano, che è intervenuto in merito ad un concorso bandito il 9 febbraio 2018 per l’assunzione di 15 funzionari mediatori culturali destinati all’amministrazione penitenziaria, attività che, secondo il Ministero della Giustizia, era da riservarsi ai soli cittadini italiani. Invece, il Tribunale di Milano, con ordinanza dell’11 giugno 2018, ha ritenuto che i mediatori culturali, pur se destinati a collaborare con l’amministrazione della giustizia, non esercitano sicuramente funzioni giudiziarie né alcun tipo di pubblico potere. Analogamente l’ordinanza del 13 giugno 2018 del Tribunale di Roma ha ritenuto discriminatorio un altro bando del Ministero della Giustizia, questa volta per l’assunzione di 250 assistenti sociali riservato ai soli italiani, ritenendo, nuovamente, non applicabile la riserva prevista dal DPCM 174/94, dato che la figura professionale dell’assistente sociale svolge “un’attività ausiliare, preparatorie all’esercizio di pubblici poteri, che non comportano l’esercizio di poteri decisionali, e piuttosto, lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione dei responsabili degli uffici”. Il giudice ha quindi consentito l’accesso al bando anche agli stranieri lungosoggiornanti, ai titolari di status di rifugiato o dello status di protezione sussidiaria e ai familiari extracomunitari di cittadini europei, in base a quanto previsto dall’art.38 del D.lgs 165/2001.

Un’altra ordinanza, emessa dal Tribunale di Torino il 12 giugno 2018, ha dichiarato invece discriminatorio il bando per l’assunzione di “personale esterno” non subordinato con qualifica di mediatore culturale emesso dall’ASL Napoli Nord 2 nel luglio 2017, nella parte in cui consentiva tale accesso ai soli cittadini italiani o ai cittadini di uno Stato membro dell’Unione Europea. In realtà, pochi giorni prima dell’udienza, la stessa Azienda sanitaria aveva modificato i requisiti, ampliando anche ai titolari di protezione internazionale, ai lungosoggiornanti e ai familiari non comunitari di cittadini dell’Unione europea. Nonostante ciò, il Tribunale ha ritenuto che, anche in base alla Convenzione OIL 143/1975, il limite di accesso agli stranieri riguarda solo le assunzioni con contratto di lavoro subordinato e non i rapporti di lavoro para subordinato e atipico (come i lavoratori coordinati e continuativi). Pertanto, la selezione è stata sospesa e l’avviso modificato, con l’obbligo di indicare “che è consentita la partecipazione anche a tutti i cittadini di Paesi terzi in possesso di un titolo di soggiorno che consenta l’accesso al lavoro”.

A queste ordinanze va aggiunta anche la sentenza n.9 del 25 giugno 2018 della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in merito alla vicenda dei direttori stranieri dei musei, che, tenendo conto anche dell’art.45, comma 4, TFUE, ha riconosciuto l’accesso ai posti di lavoro dirigenziali nella Pubblica amministrazione, a parità di condizioni, anche ai cittadini dell’Unione Europea, ai familiari extra-UE di cittadini UE, ai cittadini lungosoggiornanti extra-UE e ai titolari di protezione internazionale, confermando la riserva di nazionalità solo per i posti di lavoro “che comportano esercizio diretto o indiretto di pubbliche funzioni o attengono alla tutela dell’interesse nazionale”, demandandone l’indicazione a un DPCM (che al momento, come scritto, resta però quello del 1994 n.174).

Interessante anche l’ordinanza del 13 settembre 2018 con la quale il Tribunale di Nola ha condannato il Comune di Palma Campania per aver indetto un avviso pubblico riguardante la partecipazione a corsi di formazione gratuiti per make up artist, riservato alle sole donne di cittadinanza italiana o di altro stato UE, residenti nel Comune di Palma Campania, di età compresa tra i 18 e 45 anni, prive di occupazione e qualifica professionale. Anche in questo caso, il Comune aveva ritenuto, impropriamente, di applicare le norme restrittive relative all’accesso al pubblico impiego. A seguito dell’ordinanza, che ha riconosciuto l’avviso discriminatorio nei confronti delle cittadine di Paesi terzi, il Comune è stato obbligato a modificare l’avviso, fissando un nuovo termine per la presentazione delle domande e ammettendo tutte le donne straniere non dell’UE alle stesse condizioni di quelle italiane o “comunitarie”.

La cittadinanza dubbia

Se queste ordinanze chiariscono e ribadiscono l’importanza del rispetto del principio di uguaglianza e di non discriminazione circa situazioni verificatisi nel 2017, l’ultima campagna elettorale, poi tradotta in diversi punti del Contratto di Governo (in particolare quelli relativi al reddito di cittadinanza, alla pensione di cittadinanza e alla gratuità degli asili nido), è stata incentrata sullo slogan “prima gli italiani” (che a volte sta per “solo gli italiani”), in esplicito contrasto, tranne casi molto specifici, con numerose norme italiane e direttive europee. Tutto ciò rischia di determinare nei prossimi mesi una serie di contenziosi giudiziari, ma anche di inasprire ancor di più le tensioni tra cittadini italiani e stranieri. Nonostante recenti dichiarazioni di esponenti del Governo sembrano aver colto tali rischi, rimodulando proposte lanciate nel corso della campagna elettorale, il recente Decreto-legge immigrazione e sicurezza pubblica (D.L. 113/2018), poi diventato legge (L. 132/2018), ha comunque inserito modifiche tesa ad indebolire ulteriormente la condizione giuridica degli stranieri. Tra l’altro, ha apportato restrizioni anche in merito all’acquisizione della cittadinanza, quasi a voler marcare la differenza con il precedente Governo che era arrivato, senza troppa convinzione, a proporre una modifica della legge sulla cittadinanza (L. 91/92) che ne favorisse l’acquisizione soprattutto per chi era nato e sarebbe nato nasceva in Italia o vi era giunto e vi sarebbe giunto da bambino/a. D’altra parte, sul finire del 2017, la Corte Costituzionale, con la Sentenza n.258/17, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 91/92 nella parte in cui non prevedeva l’esonero dal giuramento della persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità. Invece, attraverso un D.L., che dovrebbe avere come presupposto l’urgenza e la necessità, si è andati a modificare la parte della concessione della cittadinanza per matrimonio. Va qui evidenziato che, per la prima volta dopo un decennio, nel 2017 sono diminuite le acquisizioni della cittadinanza, tranne per quanto riguarda quelle relative alla concessione in base alla discendenza da avi italiani (con particolare riguardo ai brasiliani, elemento che esplicita quanto nei conteggi si tenda impropriamente a mettere sullo stesso piano le varie tipologie di acquisizioni). A diminuire sono state soprattutto le acquisizioni per residenza (-28mila) e per trasmissione dai genitori (-25mila). L’unica modalità “tradizionale” di acquisizione della cittadinanza che ha invece registrato un leggero aumento, è proprio quella per matrimonio (+4mila). E’ probabile che, proprio per questo, tale tipologia di concessione è stata oggetto di misure restrittive, prevedendo un allungamento dei tempi per chiudere il procedimento, che passano dai 24 ai 48 mesi dalla data di presentazione dell’istanza. E’ quindi probabile che nei prossimi anni anche questo tipo di acquisizione subisca un netto calo. Ancor più emblematiche sono le misure restrittive tese a revocare la cittadinanza italiana. E’ infatti vero che tale possibilità era già prevista nella legge sulla cittadinanza 91/1992, ma riguardava solo casi che avessero a che fare con una situazione di guerra. In anni più recenti, altri Paesi europei hanno ritenuto di ampliare i casi di possibile revoca della cittadinanza facendo riferimento al rischio di terrorismo, soprattutto dopo essere stati interessati da attentati o dopo il coinvolgimento dei propri cittadini come autori di tali attentati o come foreign fighters. Nel caso dell’Italia, tali situazioni sono state fino ad oggi molto limitate. Nonostante ciò, con il D.L. 113/2018 (che ha inserito l’art.10-bis alla legge 91/92) è stato introdotto l’istituto della revoca della cittadinanza italiana concessa ai cittadini stranieri condannati in via definitiva per gravi reati commessi con finalità di terrorismo o eversione. A parte il rischio di un aumento di casi di apolidia (in contrasto che il divieto di nuova apolidia previsto dall’art.8, comma 1, della Convenzione sulla riduzione dell’apolidia adottata il 30 agosto 1961, alla quale l‘Italia ha aderito e data esecuzione con la legge 162/2015), molti osservatori hanno evidenziato che parte dei reati indicati hanno natura politica, laddove l’art.22 della Costituzione vieta la privazione della cittadinanza per motivi politici. A destare preoccupazione è sia il possibile ampliamento futuro della casistica sulla revoca della cittadinanza (così come rivendicato in diversi Paesi europei da partiti di estrema destra), sia la sua portata fortemente simbolica. Di fatto, vengono a crearsi due categorie di cittadini, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione: coloro che lo sono per ius sanguinis, verso i quali non è prevista la revoca della cittadinanza, e coloro che invece hanno acquisito la cittadinanza, di fatto per ius soli, che invece potranno vedersela revocata se condannati per determinati reati. Due categorie giuridiche che, come la storia ci insegna, possono facilmente divenire distinte categorie sociali, portatrici di differenti diritti, pur se entrambi composte da cittadini italiani.

L’impressione è che si vada configurando un nuovo modello di integrazione che possiamo definire “scivoloso”, perché tende a: a) rendere più difficile l’acquisizione del permesso di soggiorno di lungo periodo e della cittadinanza; b) mettere in discussione e indebolire i diritti acquisiti in particolare dai lungo soggiornanti, ma anche dai cittadini italiani d’origine straniera; c) ridurre i diritti di chi ha un permesso di soggiorno diverso da quello di lungo periodo. In altre parole, fare degli stranieri, anche se regolarmente soggiornanti, soggetti giuridicamente deboli, con diritti precari, ricattabili, come sembra confermare il fatto che il riconoscimento del diritto di voto sia scomparso, ormai da diversi anni, dall’agenda politica.