Aggiornato al: 30/04/2019
In linea generale, nel 2017 e nel primo semestre del 2018, le dinamiche relative a disoccupazione, occupazione e redditi delle famiglie fanno registrare lievi miglioramenti.
Tuttavia la situazione è ben lontana dal poter essere considerata positivamente:
Nell’agosto 2018 il Governo ha approvato il cosiddetto “decreto dignità” che avrebbe dovuto contenere misure di contrasto al precariato me che sono state fortemente criticate proprio in relazione all’introduzione di norme specifiche limitative al rinnovo dei contratti a tempo determinato che rischiano di sortire effetti opposti a quelli auspicati dal Governo.
Sul fronte del contrasto alla povertà il Reddito di Inclusione Attiva (REI) che è diventata operativa dal gennaio 2018, nei primi nove mesi dell’anno sono stati erogati benefici economici a 379 mila nuclei familiari coinvolgendo più di 1 milione di persone.
Infine nonostante il fatto che nel corso della campagna elettorale e nei primi i mesi di attività del Governo a maggioranza Lega 5 Stelle sia stata presentata come priorità quella dell’istituzione del Reddito di Cittadinanza come misura non solo di contrasto alla povertà ma di vero e proprio sostegno al reddito a garanzia di condizioni di esistenza dignitosa per tutti i cittadini a tutt’oggi non si ha completa evidenza dell’effettività di questa misura.
L’istituzione del Reddito di Cittadinanza dovrebbe costituire una delle normative caratterizzanti la prossima legge finanziaria di cui non si conoscono ancora in dettaglio contenuti e, soprattutto, i principali aspetti attuativi.
Allo stato attuale l’unico elemento certo riguarda la “filosofia” di base delle misure proposte che, prevedendo un sistema complesso e rigido di obblighi, requisisti e controlli da parte di coloro che dovrebbero percepirlo, configura il Reddito di Cittadinanza a marchio 5 stelle come una legge basata su una concezione paternalistica e autoritaria dello Sato che poco corrisponde alla prospettiva di offrire ai cittadini uno strumento a supporto alla libera scelta, nella costruzione di un proprio progetto personale di crescita sociale e lavorativa.
Come nelle altre edizioni del Rapporto il primo elemento d’analisi per illustrare il quadro della situazione riguarda la distribuzione del reddito e le dinamiche della diffusione della povertà.
Infatti i due principali fenomeni che caratterizzano la fase storica delle economie occidentali e che impattano direttamente sul diritto dei cittadini ad un reddito che consenta loro un’esistenza dignitosa sono rappresentati:
Secondo il rapporto Eurostat dell’ottobre 2018 l'Italia il Paese dell'Unione europea con il maggior numero di persone a rischio povertà o di esclusione sociale nel 2017 infatti sarebbero 17,407 milioni, il 28,9% della popolazione. Lo stesso rapporto segnala anche come il nostro Paese sia pure quello dove, Grecia a parte, questa quota è salita di più tra il 2008 e il 2017: un balzo di 3,4 punti percentuali in dieci anni. In numeri assoluti si tratta di 2,325 milioni di individui in più, rispetto ai 15,082 milioni del 2008.
La figura 1 riporta le distribuzioni percentuali della popolazione a rischio di povertà (rappresentata dall’insieme degli individui che dispone di un reddito inferiore al 60% rispetto al valore mediano nazionale(1)).
Come si può vedere, con il 28,7% di individui a rischio di povertà, nel 2016, l’Italia si posiziona al quinto posto dell’insieme dei Paesi dell’area euro e decisamente al di sopra della media UE 28 (che risulta pari al 23,5%
Fig.1 Percentuali di individui a rischio di povertà nell’Unione Europea, e nei paesi dell’area Euro - 2016
Fonte: Eurostat ottobre 2018
La figura 2 illustra le diverse intensità di variazione nei paesi EU dell’incidenza del tasso di popolazione a rischio di povertà tra il 2008 e il 2016 mettendo in evidenza come i maggiori effetti della crisi economico-finanziaria abbiano colpito maggiormente Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda.
Fig.2 Mappa delle variazioni percentuali (2006-2016) della popolazione a rischio di povertà nei paesi europei
Fonte: Eurostat ottobre 2018
Rispetto a tali dinamiche va segnalato che le ultime rilevazioni di Istat, sugli andamenti delle percentuali di individui che vivono in condizioni di povertà relativa mostrano una dinamica di costante peggioramento a partire dal 2012.
Fig.3 Andamento delle percentuali di individui che vivono in famiglie in condizioni di povertà relativa tra il 2008 e il 2017.
Fonte: elaborazioni su dati Istat – dicembre 2018
L’ineguaglianza della distribuzione del reddito.
Quanto alla disparità della distribuzione dei redditi la fig. 3 evidenzia la ripartizione del reddito complessivo disponibile nell’area euro, confrontando, da un lato, la percentuale di reddito disponibile al 20% della popolazione con redditi più alti rispetto al restante 80%, dall’altro.
Anche in questo raffronto l’Italia presenta una situazione meno favorevole rispetto alla media dei 28 membri dell’unione Europea (soprattutto considerando la quota di reddito delle fasce di popolazione mene abbienti), e decisamente peggiore nei confronti della maggioranza dei pasi dei paesi dell’area Euro.
Nel nostro paese il 20% più ricco dispone del 39,1% del reddito complessivo nazionale a fronte di una media europea del 38,5%. D’altro canto il reddito complessivo del 20% più povero è del 6,7%, mentre la media europea è pari al 7,7%.
Va poi segnalato che tra i 19 paesi dell’unione monetaria soltanto in Lettonia, Lituania, Grecia e Spagna il reddito complessivo delle quinto più povero della popolazione è proporzionalmente inferiore rispetto a quello che si registra in Italia.
Nel dettaglio la situazione italiana è decisamente peggiore non solo rispetto a Germania, Francia, Olanda, Finlandia, ma anche in confronto a Slovacchia, Slovenia, Austria, Irlanda, Belgio.
La mappa di figura 4, che evidenzia le diverse distribuzione dell’indice Gini della diseguaglianza di reddito, mostra con maggiore chiarezza la distanza esistente tra il nostro Paese e quelli del centro e nord Europa.
Fig.3 Distribuzione del reddito per quintili della popolazione nella UE e nei 19 paesi dell’area Euro anno 2016
(proporzione di reddito complessivo guadagnato dal 20% più ricco rispetto a quello guadagnato dal 20% più povero).
Fonte: Elaborazioni su dati EUROSTAT dicembre 2018
Fig.4 Mappa delle distribuzione dell’indice Gini della diseguaglianza di reddito nei paesi europei anno 2016.
Fonte Eurostat dicembre 2018
Va tuttavia segnalato che, secondo l’Istat, nel 2017 gli andamenti dei principali indicatori di povertà ed esclusone sociale si sarebbero attenuate rispetto all’anno precedente come evidenzia la figura 5.
In particolare aggregato risulta pressoché stabile al 20,3% la percentuale di individui a rischio di povertà (era 20,6% nell’anno precedente) mentre si riducono sensibilmente i soggetti che vivono in famiglie gravemente deprivate (10,1% da 12,1%), come pure coloro che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (11,8%, da 12,8%).
Fig. 5 Indicatori di povertà o esclusione sociale. Anni 2004-2017, per 100 individui
Occupazione e disoccupazione in Italia
L’analisi dei dati relativi a occupazione e disoccupazione evidenziano andamenti in leggero miglioramento:
Se si considera l’intero periodo di entrata in vigore del Jobs Act, cioè dal primo trimestre 2015, al primo trimestre 2018 gli occupati sono aumentati complessivamente di 715 mila unità.
In particolare sono cresciuti i lavoratori dipendenti (di oltre un milione di unità) mentre sono diminuiti i lavoratori autonomi (di oltre 300 mila unità).
La crescita del numero di lavoratori dipendenti riguarda per il 60,7% dei casi l’aumento dei contratti a tempo determinato.
Un dato importante da tenere in particolare considerazione riguarda l’occupazione giovanile.
Gli occupati in età compresa tra 15 e 34 anni sono cresciuti complessivamente di 128 mila unità ma va sottolineato che tale aumento è dovuto esclusivamente dall’incremento dei contratti a tempo determinato (+207 mila unità) mentre sono diminuite le posizioni a tempo indeterminato (-79 mila unità).
Si può quindi affermare che, nel periodo di vigenza delle misure contenute nel jobs act la crescita dell’occupazione ha riguardato in particolar modo l’occupazione a tempo determinato dei lavoratori adulti e che tali misure sembrano avere inciso poco sulla riduzione dei fenomeni di disoccupazione e occupazione precaria dei giovani.
Guardando all’andamento generale dei tassi di disoccupazione tra il primo trimestre 2015 e il primo trimestre 2018 si è verificata una riduzione costante nel periodo e complessivamente il tasso a livello nazionale è passato dal 12,4% all’11,0% . Va però sottolineata la dinamica disomogenea tra Nord e Sud. Infatti mentre nel nord Italia la riduzione complessiva del tasso di disoccupazione è stata dell’1,7% nel mezzogiorno tale andamento è stato meno marcato e il tasso si è ridotto soltanto dello 0,7%. Ciò ha comportato un aumento del divario della situazione occupazionale tra Nord e Sud che rappresenta un fenomeno particolarmente negativo nel nostro Paese.
Guardando poi gli andamenti del tasso di disoccupazione giovanile la situazione sembra in miglioramento ma nella valutazione di tale dinamica bisogna tenere conto di quanto sopra segnalato in merito alla tipologia dell’occupazione giovanile la cui crescita riguarda prevalentemente le posizioni meno stabili e più precarie.
Anche la dimensione del fenomeno dei NEET (giovani che non studiano e non lavorano) pur rimanendo drammatica sembra attenuarsi con una riduzione nel biennio 2015-2018 di circa 357 mila persone (il tasso di riduzione nel triennio è pari a 10,1%).
Tab. 1 Andamento del numero (000) di Occupati dinamica 2015-18 (I° trimestre)
Primo trim. 2016 | Primo trim. 2016 | Primo trim. 2017 | Primo trim. 2018 | variazione 2018-2015 | |
Totale occupati | |||||
Lavoratori dipendenti | 16.620 | 16.964 | 17.307 | 17.640 | 1.019 |
Autonomi | 5.538 | 5.437 | 5.420 | 5.234 | -304 |
Totale | 22.158 | 22.401 | 22.726 | 22.874 | 715 |
Lavoratori dipendenti | |||||
Tempo indeterminato | 2.143 | 2.146 | 2.377 | 2.762 | 618 |
Tempo determinato | 14.477 | 14.818 | 14.930 | 14.878 | 401 |
Totale | 16.620 | 16.964 | 17.307 | 17.640 | 1.019 |
Lavoratori dipendenti Giovani 25-34 anni | |||||
Tempo indeterminato | 719 | 709 | 809 | 926 | 207 |
Tempo determinato | 2.443 | 2.484 | 2.474 | 2.364 | -79 |
Totale | 3.162 | 3.193 | 3.283 | 3.290 | 128 |
Tab. 2 Andamento dei tassi di disoccupazione nel periodo 2015-2017 (I° trimestre)
| Primo trim. 2016 | Primo trim. 2016 | Primo trim. 2017 | Primo trim. 2018 | variazione 2018-2015 |
Totale Italia | 12,4 | 11,6 | 11,6 | 11,0 | -1,4 |
Nord | 8,4 | 7,6 | 7,2 | 6,7 | -1,7 |
Centro | 11,5 | 10,2 | 10,1 | 9,7 | -1,8 |
Mezzogiorno | 19,9 | 19,3 | 20,0 | 19,2 | -0,7 |
DISOCCUPAZIONE GIOVANILE | |||||
Tassi di disoccupazione (25-34 anni) | 18,6 | 17,4 | 17,3 | 16,3 | -2,4 |
Fig. 5. NEET (giovani che non studiano e non lavorano) in Italia 2012 - I° Trimestre 2018 per genere. (migliaia di persone)
Fonte: Istat Statistiche sulla disoccupazione
Nel complesso, quindi la situazione occupazionale nel nostro paese nel triennio 2015-18 è migliorata, ma tale miglioramento ha riguardato soprattutto le posizioni lavorative dipendenti e a tempo determinato, soprattutto per quanto riguarda i giovani.
Va considerato nella valutazione di queste dinamiche che gli andamenti congiunturali dell’economia e dell’attività produttive del periodo considerato sono state complessivamente positive e di crescita e che, invece nella seconda parte del 2018 si sta verificando un rallentamento della crescita alla quale corrisponde anche una crescita tra settembre e ottobre del tasso di disoccupazione che passa dall’11,5% all’11,8%
Precariato e sotto-occupazione involontaria
Accanto ai temi della povertà, della diseguaglianza della distribuzione del reddito e dei tassi generali di occupazione e disoccupazione, va considerata la dimensione e la diffusione della precarietà, valutando in particolare le dinamiche delle numerosità e delle condizioni dell’insieme di quei lavoratori “intermittenti” che non godono di costanza di reddito o che lavorano a tempo parziale e che, nell’attuale congiuntura, risultano essere tra coloro che presentano maggiori rischi di vedere scendere il proprio tenore di vita al di sotto delle soglie di povertà.
Se si sommano i sotto-occupati a coloro che prestano un lavoro part-time “involontario” si raggiunge la quota di quasi 3 milioni e mezzo di individui, complessivamente in crescita dell’1,7% tra il primo trimestre 2015 e il primo trimestre 2018. Tale fenomeno quindi non sembra avere beneficiato né della ripresa economica internazionale né delle misure contenute nel Jobs Act.
Tale fenomeno risulta di fondamentale importanza soprattutto alla luce dei crescenti fenomeni di aumento del rischio di povertà anche tra gli occupati, in particolare giovani. Nel Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese presentato il 7 dicembre di quest’anno si stima che nel nostro paese ci siano ben 330 mila individui tra i 20 e 29 anni occupati a rischio di povertà e che tale fenomeno riguarda quasi in egual misura lavoratori dipendenti e autonomi.
Tab.3 Migliaia di persone sotto-occupate e occupate in forme di part-time involontario in Italia (primo trimestre 2015-primo trimestre 2018) valori assoluti in migliaia e variazione percentuale
| Primo Trim. | Primo Trim. | Primo Trim. | Primo Trim. | variazione % I trim 2018-I trim 2015 |
| 2015 | 2016 | 2017 | 2018 | |
SOTTO OCCUPATI | |||||
maschi | 311 | 299 | 332 | 272 | -12,4% |
femmine | 485 | 423 | 474 | 461 | -5,0% |
Totale | 795 | 722 | 806 | 733 | -7,8% |
PART TIME INVOLONTARIO | |||||
maschi | 799 | 843 | 868 | 857 | 7,3% |
femmine | 1.824 | 1.845 | 1773 | 1887 | 3,4% |
Totale | 2.623 | 2.688 | 2.641 | 2744 | 4,6% |
TOTALE | |||||
maschi | 1.109 | 1.142 | 1200 | 1129 | 1,8% |
femmine | 2.309 | 2.268 | 2247 | 2347 | 1,7% |
Totale | 3.418 | 3.410 | 3.447 | 3.477 | 1,7% |
Fonte: Istat Statistiche sull’occupazione
In sintesi.
Il 2 luglio 2018 il Consiglio dei Ministri ha approvato in via preliminare il cosiddetto “decreto dignità” che prevedeva una serie di misure specifiche riguardanti quattro punti principali:
Secondo gli esperti, c’è più di un dubbio che la legge riuscirà effettivamente nel suo intento. Alcune delle modifiche che introduce sono comunque significative e vale la pena spiegarle.
Reintroduzione dei voucher
Su richiesta della Lega, la legge introduce nuovamente i “voucher” nei settori alberghiero, agricolo e per gli enti locali. I datori di lavoro potranno così utilizzare i “buoni lavoro” per pagare prestazioni lavorative molto brevi, anche di poche ore soltanto. I voucher erano stati aboliti all’inizio del 2017 dal governo Gentiloni per evitare un referendum con cui la CGIL chiedeva la loro abolizione. I nuovi voucher potranno essere usati soltanto per pagare pensionati, studenti con meno di 25 anni, disoccupati e percettori di forme di sostegno al reddito. Restano invece escluse le famiglie, che in passato potevano utilizzare i voucher per pagare ripetizioni scolastiche e collaboratori domestici.
Decontribuzione La legge introduce un nuovo bonus per l’assunzione dei giovani con contratto a tempo indeterminato. Da gennaio, chi assume con il nuovo contratto a tutele crescenti chi ha meno di 35 anni otterrà uno sconto del 50 per cento sui contributi da versare per i tre anni successivi all’assunzione (con un tetto però pari a 3.000 euro l’anno). Il bonus resterà in vigore per il 2019 e il 2020. La decontribuzione introdotta dalla legge ricalca quasi esattamente quella stabilita nel 2015 dal governo Renzi. Curiosamente, lo stesso Luigi Di Maio in passato aveva criticato duramente questa misura che ora lui stesso ha reintrodotto.
Modifiche sui contratti a tempo determinato
Il decreto riduce la durata massima dei contratti a tempo determinato da 36 a 24 mesi. I contratti superiori ai 12 mesi, inoltre, dovranno essere giustificati da una causale e il datore di lavoro dovrà quindi giustificare perché assume un dipendente a tempo determinato invece che a tempo indeterminato (in passato, le causali avevano prodotto migliaia di controversie giudiziarie). Le nuove regole entreranno in vigore per i contratti a partire dal 31 ottobre, in modo da dare tempo alle imprese di adeguarsi.
Aumenta l’indennità di licenziamento
L’indennità che il datore di lavoro deve pagare nel caso di licenziamento illegittimo fino a ieri prevedeva il pagamento di due mensilità per ogni anno trascorso al lavoro, partendo da un minimo di 4 mensilità e fino a un massimo di 24. La legge ha alzato il minimo a sei mensilità e il massimo a 36 mensilità.
Tra le principali criticità del decreto dignità, particolarmente criticate sia dal mondo imprenditoriale e da parte del mondo sindacale c’è l’abbassamento del limite per i contratti a tempo determinato a 12 mesi che diventano 24 mesi a fronte di una causale.
Si tratta di restrizioni mosse dall’intento di favorire la stabilizzazione ma che rischiano di ritorcersi contro i lavoratori. In particolare «l’assoluta indeterminatezza e delle esigenze e condizioni riportate che, al di là di quelle di quelle di carattere sostitutivo, sembrano di difficile individuazione prestandosi facilmente, pertanto, al rischio di contenzioso». Da qui il pericolo che i datori di lavoro, per evitare le conseguenze di un’errata individuazione delle causali, preferiscano sospendere i rapporti dopo 12 mesi, aumentando il turnover. Gli stessi limiti previsti per il contratto a tempo determinato saranno applicati anche al contratto di somministrazione, che rischia anch’esso di subire un ridimensionamento. Altro deterrente per i datori di lavoro potrebbe essere l’aumento ad ogni rinnovo di 0,5 punti percentuali del contributo addizionale, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali riconducibile alla Legge Fornero.
Anche sugli effetti degli sgravi contributivi da più parti vengono espressi notevoli dubbi. Infatti nonostante la continua introduzione di sgravi contributivi per ridurre in modo temporaneo i costi del lavoro per i datori di lavoro, le assunzioni a tempo indeterminato di giovani non sono aumentate, ma il dato è rimasto pressoché identico al 2013. Se nel 2013 erano state 1 milione e 224mila, infatti, nel 2016 sono diventate 1 milione e 241 mila.
Precedenti che non fanno ben sperare: La sensazione è che questo non sia il percorso giusto per ottenere obiettivi condivisibili, ma per avere dati attendibili occorrerà aspettare almeno un anno. Certo se verrà veramente introdotta la flat tax non è difficile immaginare un’ulteriore aumento delle partite Iva. La migliore delle ipotesi, visto che l’altro rischio è quello che i rapporti precedentemente regolarizzati possano finire nel lavoro sommerso.
Per contrastare la diffusione del fenomeno della povertà, ormai quasi strutturale per il nostro Paese, il 7 giugno 2017 il Governo aveva di aver deliberato una nuova misura di contrasto alla povertà a livello nazionale, denominata Reddito di Inclusione Attiva (REI), attraverso un decreto legislativo che è ora alla valutazione di Camera e Senato.
Tale misura è stata attivata dal gennaio 2018 ed è prevede principalmente da un beneficio economico, variabile tra 190 e 490 euro al mese, che verrà riconosciuto alle famiglie con un reddito ISEE inferiore ai 6.000 euro l’anno e un valore del patrimonio immobiliare inferiore ai 20.000 euro. Da tale calcolo è esclusa la casa di proprietà.
Fermo restando il possesso dei requisiti economici, il REI è compatibile con lo svolgimento di un’attività lavorativa.
Si tratta di un beneficio economico erogato su dodici mensilità, con un importo che va da circa 190 euro mensili per una persona sola, fino a quasi 490 euro per un nucleo con 5 o piu’ componenti. Il ReI viene concesso per un periodo continuativo non superiore a 18 mesi ed è necessario che trascorrano almeno 6 mesi dall’ultima erogazione prima di poterlo richiedere nuovamente.
Secondo L’Osservatorio INPS sull’andamento del ReI Nel periodo gennaio-settembre dell’anno 2018 sono stati erogati benefici economici a 379 mila nuclei familiari coinvolgendo più di 1 milione di persone. La maggior parte dei benefici vengono erogati nelle regioni del sud (69%) con interessamento del 72% delle persone coinvolte. Il 47% dei nuclei beneficiari di ReI, che rappresentano oltre il 51% delle persone coinvolte, risiedono in sole due regioni: Campania e Sicilia; a seguire Calabria, Lazio, Lombardia e Puglia coprono un ulteriore 28% dei nuclei e il 27% delle persone coinvolte.
Il tasso di inclusione del ReI, ovvero il numero di persone coinvolte ogni 10.000 abitanti, risulta nel periodo considerato a livello nazionale pari a 184; raggiunge i valori più alti nelle regioni Sicilia, Campania e Calabria (rispettivamente pari a 540, 517, 389) ed i valori minimi in Friuli Venezia Giulia ed in Trentino Alto Adige (pari in entrambi i casi a 23). Il 10% dei nuclei percettori di ReI risulta extracomunitario, per cittadinanza del richiedente la prestazione, e di questi si evidenzia un’incidenza del 30% nelle regioni del Nord.
L’importo medio mensile erogato nel periodo gennaio-settembre 2018, pari a 305 euro, risulta variabile a livello territoriale, con un range che va da 239 euro per i beneficiari della Valle d'Aosta a 336 euro per la Campania. Complessivamente le regioni del Sud hanno un valore medio del beneficio più alto di quelle del Nord pari a 53 euro (+20%) e del Centro pari a 37 euro (+13%).
Tra le priorità indicate nelle raccomandazioni del Primo Rapporto sullo Stato dei Diritti in Italia vi era l’istituzione di un reddito di cittadinanza come misura universale di inclusione e redistribuzione nelle forme e nei modi analogamente presenti in diversi paesi europei.
Il Movimento 5 Stelle e l’attuale Vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio hanno fatto di questa misura uno dei principali pilastri delle proprie azioni propagandistiche e l’istituzione di una misura di cosiddetto redito di cittadinanza è prevista con il varo della Legge Finanziaria 2018 di cui non sono a tutt’oggi ancora chiari contenuti, dimensioni e caratteristiche.
Al di là degli aspetti operativi e della sua effettiva istituzione il reddito di cittadinanza previsto e annunciato non si discosta nella sua filosofia di base dal disegno di legge presentato nella scorsa legislatura che prevede un sistema di controlli, condizioni e sanzioni guidate da una concezione paternalistica e autoritaria dello Sato che poco corrisponde all’idea di un reddito di cittadinanza come strumento di supporto alla libera scelta delle persone nella costruzione di un proprio progetto personale di crescita sociale e lavorativa e di effettiva partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il tema è, comunque, largamente dibattuto e, i detrattori di tale misura puntano il dito in maniera particolare sulla filosofia “assistenzialista” della misura che poco ha a che vedere con l’idea dell’affermazione di un diritto al reddito di carattere universale che viene definita con estrema chiarezza dalle parole di Stefano Rodotà in un passaggio molto chiaro di un intervista concesse al manifesto il 4 dicembre del 2014, in occasione della pubblicazione del suo saggio sulla solidarietà come utopia necessaria.
Il reddito universale può essere considerato uno strumento per affermare la solidarietà a livello europeo?
“Ne sono convinto. Molti sostengono che entra in contraddizione con l’articolo 1 della nostra costituzione. C’è un’altra obiezione: il riconoscimento del reddito affievolisce la lotta per il lavoro. In queste prospettive vedo un errore. Si considera che la disoccupazione sia sempre una fase transitoria e la piena occupazione resta un obiettivo a portata di mano. Ma questi discorsi oggi sono lontanissimi. Del reddito universale è possibile fornire varie gradazioni: da quello minimo a quello di base. Tutte possono essere usata per liberare i singoli dal ricatto del lavoro precario o non pagato; a condurre un’esistenza libera e dignitosa; a eliminare la competizione tra i poveri. Montesquieu diceva che abbiamo bisogno di istituzioni, non di promesse né di carità. Il reddito universale dimostra che la solidarietà è un’utopia profondamente piantata nella realtà”.
(1) - Il reddito mediano procapite in Italia, calcolato dall’Istat per il 2016 corrisponde a circa 10.400 euro l’anno