Aggiornato al: 09/04/2018
Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali
Articolo 3. Divieto di tortura
“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti crudeli inumani o degradanti”.
Nel corso del primo semestre del 2016, molti sono stati gli avvenimenti di interesse per l'argomento di questo capitolo. Dopo aver superato la “prova” della sentenza Torreggiani, con la Corte Europea dei diritti dell'uomo (CtEDU) che si è dichiarata soddisfatta dei progressi fatti dal nostro paese, il numero dei detenuti nelle nostre carceri è diminuito, sono stati introdotti alcuni importanti cambiamenti normativi ed è stato finalmente nominato il Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Decisamente negative sono invece le notizie che, su un altro fronte, provengono sempre dalla Corte di Strasburgo. L'Italia è stata condannata per i cosiddetti fatti di Asti e per quanto accaduto durante il G8 di Genova all'interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. In tutti e tre quei contesti, alcuni uomini appartenenti alle forze di polizia hanno torturato persone sottoposte alla loro custodia ma, nonostante il pesante richiamo della CtEDU, e nonostante da tre anni sia in discussione in Parlamento un disegno di legge per introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento, dopo numerosi rinvii la proposta di legge giace al Senato, e la sua approvazione è rimandata a data da destinarsi. Inoltre, nel corso degli ultimi mesi sono state emesse alcune sentenze relative a vicende di persone decedute a seguito di fermi di polizia: Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Stefano Cucchi, Davide Bifolco e Riccardo Magherini. In ultimo, verrà dato conto dello stato d'attuazione della legge che prevede la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e dell'avvio della campagna nazionale per l'abolizione della contenzione meccanica in psichiatria.
L'8 gennaio del 2013 viene pronunciata la ormai nota sentenza Torreggiani, con cui la CtEDU condanna il nostro paese per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), a seguito del ricorso del signor Torreggiani e di altri 7 detenuti, i quali lamentavano, tra le altre cose, uno spazio vitale all'interno delle loro celle troppo esiguo. La Corte condanna quindi l'Italia, non solo per il caso in questione ma attraverso una “sentenza pilota”, prevista dall'articolo 46 della Convenzione stessa, con la quale riconosce il carattere strutturale del sovraffollamento nei nostri penitenziari e intima all'Italia di adottare provvedimenti utili a risolvere il problema. Il nostro paese ha avuto un anno di tempo, prorogato di un altro anno in virtù dei progressi compiuti, e nel marzo 2016 il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha chiuso definitivamente il capitolo della sentenza Torreggiani, dichiarandosi soddisfatto del percorso di riforme attuato. Vediamo, allora, quali sono i provvedimenti assunti dal nostro Governo nel corso degli ultimi tre anni sul tema delle carceri e dei diritti dei detenuti.
Il 23 dicembre 2013 viene approvato il decreto legge 146 “recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”, convertito poi nella legge 10 del 2014. Questo decreto ha previsto misure dirette a contrastare il sovraffollamento carcerario e interventi in materia di tutela dei diritti dei detenuti(1). La legge 94 del 2013 è intervenuta su diversi fronti: con modifiche del codice di procedura penale per quanto riguarda la custodia cautelare in carcere, le tempistiche per poter richiedere le misure alternative e la detenzione domiciliare, con cambiamenti nella lista dei reati ostativi e della sospensione dell'ordine di esecuzione, viene inoltre abolita la preclusione per i recidivi; un secondo fronte riguarda modifiche dell'ordinamento penitenziario, attraverso delle norme di incentivo al lavoro all'esterno, prevedendo anche la possibilità di lavoro a titolo volontario e gratuito, sulla detenzione domiciliare e la semilibertà, incidendo soprattutto sulla questione della recidiva e ampliando le possibilità di fruizione dei permessi premio; con modifiche al testo unico stupefacenti, rispetto alla possibilità di accedere al lavoro di pubblica utilità per il reo tossicodipendente; si sono introdotte, infine, disposizioni più favorevoli alle imprese che decidono di assumere detenuti, attraverso maggiori sgravi contributivi e crediti d'imposta. La legge 117 del 2014 ha introdotto una ipotesi di risarcimento, nel caso in cui un detenuto abbia subìto un danno derivante da condizioni detentive inumane e degradanti, e può essere corrisposto in forma monetaria o attraverso uno sconto di pena. Con la legge 67 del 2014 viene introdotto, come già succede per la giustizia minorile, l'istituto della messa alla prova dell'imputato e viene esercitata la delega governativa per la non punibilità per tenuità del fatto. Il governo ha purtroppo mancato l'occasione di esercitare la delega sulle pene detentive non carcerarie.
Un ulteriore aiuto alla deflazione della popolazione detenuta è arrivato dalla Corte Costituzionale, attraverso la sentenza 32 del 2014 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità di una parte della cosiddetta “Fini-Giovanardi” sulle sostanze stupefacenti, una delle leggi che secondo molti aveva provocato un così massiccio aumento dei detenuti nei nostri penitenziari. Infine, dopo che il decreto 146 del 2013 aveva istituito la figura del Garante nazionale dei detenuti, con compiti di tutela delle persone private della libertà e di monitoraggio indipendente, e in ottemperanza alla ratifica del Protocollo Opzionale alla convenzione contro la tortura, il 1 febbraio e il 3 marzo 2016 sono stati emanati i decreti del Presidente della Repubblica di nomina del Professor Mauro Palma a Presidente dell'organismo del Garante e dell'avvocato Emilia Rossi e della dottoressa Daniela De Robert come componenti. Infine, nel corso del 2015, si sono tenuti gli “Stati generali dell’esecuzione penale”, organizzati in 18 tavoli tematici, e la prima fase di lavoro si è conclusa con un convegno nel carcere romani di Rebibbia, il 18 e il 19 aprile 2016. Come ha affermato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’obiettivo cui guardare è ”una redistribuzione dei pesi tra carcere ed esecuzione penale esterna” per raggiungere il risultato di una maggiore convenienza “in termini di costi e recidiva, dando alla pena un carattere restitutivo che finora non ha mai avuto"(2). Secondo i dati forniti dall'amministrazione penitenziaria, si è passati da una presenza di 66.028 detenuti registrata il 30 giugno 2013, a una presenza di 54.072 nel 30 giugno 2016. Siamo ancora oltre il numero previsto rispetto alla capienza regolamentare dichiarata dal ministero della Giustizia, 49.701 persone, ma dalla data della sentenza Torreggiani qualcosa ha iniziato a muoversi nella giusta direzione.
L'Italia non è sanzionata unicamente per il trattamento riservato ai detenuti nei suoi penitenziari, ma anche per alcuni fatti che hanno riguardato l'utilizzo della tortura contro cittadini variamente sottoposti all'autorità delle forze di polizia. Si tratta, nello specifico, dei cosiddetti “fatti di Asti” e di quanto accaduto nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001. Le vicende del carcere piemontese hanno coinvolto, tra il 2004 e il 2005, due detenuti e alcuni agenti di polizia penitenziaria. Questi ultimi, con il coinvolgimento di alcuni colleghi, hanno tenuto per lungo tempo in isolamento i due uomini e li hanno sottoposti a ogni tipo di violenza e privazione. Nonostante dal dibattimento i fatti e le responsabilità siano stati provati al di là di ogni ragionevole dubbio, il giudice non ha potuto emettere alcuna condanna in quanto, pur se i comportamenti degli agenti potevano essere qualificati come tortura, la mancanza nel nostro ordinamento del reato conseguente e quindi la prescrizione dei reati qualificati come più lievi, hanno impedito la condanna dei responsabili. La CtEDU, a seguito del ricorso da parte dei due detenuti promosso dall'associazione Antigone, nel novembre 2015 ha dichiarato ammissibile il ricorso e il governo italiano ha proposto una composizione amichevole offrendo 45mila euro di risarcimento a ogni ricorrente. Nel marzo 2016, però, la Corte ha rifiutato la proposta, decidendo di portare a giudizio il nostro governo e valutare nel merito la vicenda. Stesso esito ha avuto il ricorso per i fatti accaduti all'interno della Caserma di Bolzaneto, dove alcune persone arrestate nel corso delle manifestazioni durante il G8 di Genova del 2001 furono sottoposte a torture e trattamenti inumani e degradanti, per ore o addirittura per giorni. A seguito dell'ammissibilità del ricorso, il Governo italiano ha proposta la stessa cifra offerta ai due detenuti del carcere di Asti ma, ugualmente, la Corte ha rifiutato decidendo di portare avanti il procedimento e valutare nel merito la questione. Queste due decisioni, al momento in cui scriviamo, non sono state ancora pubblicate dalla Corte di Strasburgo, e sono attese per i prossimi mesi. Si è conclusa invece, nell'aprile 2015, la vicenda relativa ai fatti accaduti alla scuola Diaz, quando alcuni manifestanti che lì dormivano durante il G8 di Genova, vennero sorpresi nel sonno e brutalmente picchiati. Uno di questi, Arnaldo Cestaro, ha presentato ricorso alla CtEDU e la Corte gli ha dato ragione, utilizzando un'ampia motivazione: il trattamento subito da Cestaro è da considerarsi tortura ma, ed è forse la parte più importante della sentenza, l'Italia è da sanzionare anche per non essere riuscita a punire i colpevoli, a causa della mancanza di un reato confacente nel nostro ordinamento e dalla mancata cooperazione della polizia nell'identificazione di quei poliziotti che sono rimasti, per questo, impuniti.
Come ricordato dalle sentenze della CtEDU richiamate nel paragrafo precedente, l'Italia è ancora colpevole per non aver ottemperato agli obblighi derivanti dall'adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti e le pene crudeli, inumani o degradanti, entrata in vigore il 26 giugno del 1987 e, nel nostro paese, ratificata nel 1989. Tra gli obblighi imposti dalla Convenzione c’è quello di dotarsi di una legge interna che preveda e sanzioni qualsiasi atto di tortura. Il nostro paese, dopo quasi trent'anni, non è stato ancora in grado di approvare quella legge. Come ricordato nella precedente edizione del Rapporto, nel corso degli anni sono stati numerosi i tentativi di introdurre questa fattispecie di reato ma il dibattito parlamentare non si è mai concluso e, purtroppo, dopo ben tre anni e mezzo, neanche i parlamentari della XVII legislatura sono riusciti a portare a termine questo così fondamentale compito. Il disegno di legge per l'introduzione di questo reato attualmente giace al Senato della Repubblica, dove è stato approvato in prima lettura il 5 marzo 2014. Già allora, numerose sono state le critiche per un testo non aderente alla chiara definizione di tortura inserita nel primo articolo della Convenzione delle Nazioni Unite(3) e il decennale dibattito intorno alla qualificazione della tortura come un reato proprio, attribuibile cioè solo a chi può legittimamente utilizzare la forza e svolge compiti di custodia nei confronti di altre persone, o come un reato comune, imputabile a chiunque, si è risolto nella scelta del secondo, non soddisfacendo le molte associazioni di tutela dei diritti umani che hanno condotto su questo tema numerose campagne. Un anno dopo, nell'aprile 2015, il testo viene approvato con modifiche alla Camera dei Deputati e fa il suo ritorno alla commissione Giustizia del Senato, che lo licenzia con alcune modifiche per la discussione in aula. Le variazioni apportate dalla commissione Giustizia durante l’ultimo passaggio, quelle che qui più ci interessano, riguardano l'articolo 1, che viene così modificato rispetto al testo approvato dalla Camera dei Deputati: “Chiunque con reiterate violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da tre a dieci anni”. Le principali modifiche proposte da associazioni come Amnesty International Italia e Antigone, e sostenute da alcuni senatori, riguardano la soppressione degli aggettivi “reiterate” e “verificabile”. Il rischio, paventato tra gli altri dalle organizzazioni attive per la tutela delle persone private della libertà, è che un articolo così formulato sarebbe di difficile applicazione, rendendo oltremodo oneroso arrivare a un pieno raggiungimento della prova in sede processuale. Il 14 luglio viene approvato in aula l'emendamento di soppressione del termine “reiterate” presentato da Sinistra Italiana, ma questa modifica non viene accolta favorevolmente da una parte della maggioranza. Le polemiche dei giorni successivi, cui partecipa criticando il nuovo testo anche il ministro degli Interni Angelino Alfano(4), hanno come risultato una interruzione della discussione in aula e un rinvio, a data da definirsi, per l'approvazione del disegno di legge. Slitta quindi, ancora una volta, l'introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento.
Già nella scorsa edizione del rapporto avevamo trattato il delicato tema dei “morti di Stato”, persone, cioè, che sono state uccise o hanno perso la vita a seguito di incontri con forze di polizia. Negli ultimi anni si è discusso molto di queste vicende, e l'attenzione pubblica intorno a questo fenomeno è decisamente aumentata, grazie anche ad alcune storie che sono riuscite, mediaticamente, a venir conosciute a livello nazionale. In questa sezione faremo il punto su alcune sentenze pronunciate nel corso degli ultimi mesi, rimandando al sito di A Buon Diritto per una trattazione più esaustiva dei singoli casi. Dino Budroni viene ucciso il 30 luglio 2011 da un colpo di pistola sparato da un poliziotto al termine di un inseguimento sul grande raccordo anulare di Roma. Il processo di primo grado nei confronti dell'agente, accusato di omicidio colposo, si conclude con un'assoluzione perché “il fatto non costituisce reato” e a seguito dell'appello presentato dai familiari, il 4 aprile 2016 la I Corte d'Appello di Roma ha rinviato il processo al 14 novembre, per decidere sul cambio di imputazione – da omicidio colposo a omicidio volontario – richiesto dalle parti civili. Se il motivo d'appello venisse accolto, gli atti verrebbero restituiti alla Corte d'Assise e l'assoluzione del poliziotto annullata.
Davide Bifolco viene ucciso a sedici anni il 5 settembre 2014, con un colpo di pistola sparato da un carabiniere che stava effettuando un inseguimento. Il processo di primo grado si è concluso il 21 aprile ed è stata emessa una sentenza che ha ritenuto colpevole il militare per omicidio colposo, condannandolo a quattro anni e quattro mesi di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni.
Il 15 aprile 2016, dopo svariati processi e molti anni, è stata pronunciata sentenza del processo per la morte di Giuseppe Uva, deceduto nel giugno 2008 nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese dopo essere stato trattenuto alcune ore in una caserma dei carabinieri. I due carabinieri e i sei poliziotti imputati di omicidio preterintenzionale e di sequestro di persona, vengono assolti in primo grado anche se lascia perplessa la motivazione di questa assoluzione: il giudice estensore, infatti, scrive che i carabinieri non avevano alcun titolo per trattenere Giuseppe Uva – lo hanno, quindi, sequestrato – ma sono incappati in un “errore scusabile” perché non sapevano di stare commettendo un illecito.
Il processo d'appello per la morte di Michele Ferrulli, l'uomo deceduto a seguito di un fermo di polizia il 30 luglio 2011, si è svolto nei primi mesi del 2016 e, il 23 maggio, i giudici hanno deciso di confermare l'assoluzione di primo grado dei quattro poliziotti imputati. Il loro comportamento è stato ritenuto legittimo e l'arresto cardiaco di Ferrulli una disgrazia accaduta per motivi indipendenti alle modalità di trattenimento operate dagli uomini in divisa. I familiare della vittima, prima tra tutti la figlia Domenica, dichiara che anche il secondo grado del processo non ha spiegato alcuni dei numerosi dubbi sulla vicenda. Di segno opposto invece la decisione dei giudici di Firenze, che il 13 luglio hanno condannato tre carabinieri per la morte di Riccardo Magherini, il quarantenne fermato la notte del 3 marzo 2014 in Borgo San Frediano e deceduto dopo un ammanettamento prolungato a terra in posizione prona. La condanna di primo grado a 8 e 9 mesi per omicidio colposo sancisce la responsabilità dei tre carabinieri per aver concorso alla morte di Magherini, provocando una diminuzione della “dinamica respiratoria” a seguito della posizione cui lo hanno costretto per diversi minuti.
Anche per quanto riguarda la morte di Stefano Cucchi, il trentunenne romano morto il 22 ottobre 2009 nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini, a una settimana dal suo arresto, si devono registrare alcuni fatti rilevanti accaduti nell'ultimo anno. Il primo è che, tra il settembre e l'ottobre 2015, importanti progressi nelle indagini portano a indagare tre carabinieri, sospettati di aver usato violenza contro Cucchi durante il periodo di permanenza in caserma a seguito del suo arresto, mentre il maresciallo responsabile quella notte, è indagato insieme a un altro carabiniere per falsa testimonianza, perché avrebbero mentito nel corso del processo di primo grado in cui erano imputati alcuni medici e infermieri del Pertini e tre agenti di polizia penitenziaria. La vicenda giudiziaria relativa alla morte di Stefano Cucchi ha conosciuto numerosi passaggi, e qui vale la pena ripercorrerli brevemente, prima di arrivare al momento attuale. Il processo di primo grado, cui accennavamo prima, si conclude nel giugno 2013 con l'assoluzione di infermieri e agenti di polizia penitenziaria e la condanna di cinque medici per omicidio colposo, mentre la Corte d'Appello di Roma, nell'ottobre 2014, assolve tutti gli imputati, affermando nelle motivazioni che Stefano Cucchi è stato picchiato al di fuori di ogni dubbio, e che si dovrebbero effettuare nuove indagini per accertare eventuali responsabilità di persone diverse. Ed è, appunto, nel settembre del 2015 che l'inchiesta bis prende per la prima volta in considerazione la posizione dei carabinieri, sentiti solo come testimoni nel corso del primo processo, indagati per lesioni aggravate e falsa testimonianza. La corte di Cassazione, nel corso del terzo grado del filone principale, decide per l'annullamento parziale della sentenza di appello e dispone un nuovo processo per cinque dei sei medici assolti. La terza Corte d'assise d'appello, il 18 luglio 2016, assolve nuovamente gli imputati perché il fatto non sussiste. In questo momento si attende di sapere se e quando inizierà il processo relativo all'inchiesta bis, che vede coinvolti i carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi.
Gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), pensati per accogliere persone con disagio mentale autori di reato, nascono nel 1978 con la legge 180 di riforma della psichiatria che prende il nome di Franco Basaglia, la quale ha abolito i cosiddetti manicomi civili. Nel corso degli ultimi anni si è avvertita sempre più forte l’esigenza di superare gli Opg dotandosii di luoghi diversi per la cura e la custodia di autori di reato con infermità mentale, e la Commissione d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale presieduta dal Senatore Ignazio Marino nella XVI legislatura ha fornito dati utili per procedere in questo senso. La “Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari” ha documentato, grazie anche alle numerose visite ispettive effettuate, “gravi e inaccettabili carenze strutturali e igienico sanitarie” oltre all’utilizzo di pratiche, come la contenzione meccanica e farmacologica, “lesive della dignità umana”. Nel 2012, con la legge 17 del 9 febbraio, vengono date disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari – facendo seguito a quanto già previsto dal DPCM del 1° aprile 2008 – e viene fissato il termine del 31 marzo 2013 per la creazione delle nuove strutture e il definitivo trasferimento di quanti devono scontare una misura di sicurezza. Leggi successive rinviano la chiusura definitiva degli Opg al 31 marzo 2015, data entro la quale le Regioni devono essersi dotate delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria (Rems), sostitutive delle vecchie strutture. Al luglio 2016, la situazione è la seguente: sono stati chiusi gli Opg di Napoli Secondigliano, Reggio Emilia e Aversa, mentre sono ancora in funzione quelli di Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo Fiorentino. Il sesto Opg, quello di Castiglione delle Stiviere, ha semplicemente cambiato nome trasformandosi in Rems ma, con i suoi 200 internati, pare essere in netto contrasto con lo spirito della legge di riforma e con la previsione di un numero molto contenuto di persone ospitate all’interno di ogni Residenza. Un’altra importante novità è rappresentata da una modifica introdotta nella legge 81 del 2014, la quale stabilisce una durata massima per le misure di sicurezza – prima prorogabili perpetuamente – che non possono superare la condanna massima comminabile agli imputabili. Desta invece molta preoccupazione l’approvazione di un emendamento al disegno di legge 2067, approvato al Senato, che secondo il gruppo di associazioni componenti la sigla StopOpg “rischia di riaprire la stagione degli Ospedali psichiatrici giudiziari”, in quanto ripristina la vecchia normativa e dispone il ricovero in Rems “esattamente come se fossero i vecchi Opg”. Sarebbe, quindi, a rischio la residualità dei ricoveri nelle Rems, progettate esclusivamente per quelle persone che non possano in alcun modo accedere a misure di sicurezza alternative alla detenzione. Con questo emendamento, secondo i componenti di StopOpg, potrebbero essere inviati nelle Residenze sia quei detenuti il cui disagio mentale è insorto durante il periodo di carcerazione, sia coloro i quali si trovino nei reparti carcerari di osservazione psichiatrica. Sempre sui temi che riguardano la psichiatria, si segnala la nascita della campagna “…E tu slegalo subito”, per l’abolizione della contenzione meccanica – la pratica di legare il paziente polsi e caviglie al proprio letto -, fenomeno scarsamente conosciuto ma assai frequente in molte strutture sanitarie. Questo delicatissimo tema è parzialmente uscito dal cono d’ombra in cui si trovava a causa di un evento tragico, la morte di Francesco Mastrogiovanni nell’agosto del 2009, dopo quattro giorni di contenzione ininterrotta nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania(5). Per la morte di Mastrogiovanni, sono stati condannati in primo grado sei medici per sequestro di persona e morte come conseguenza di altro delitto, mentre sono stati assolti gli infermieri imputati. Per ottobre 2016 è prevista la sentenza del processo d’appello. Gli obiettivi della campagna sono creare consapevolezza nella cittadinanza e un dibattito informato intorno a questo tema, supportare pazienti e operatori che vogliano sporgere denunce su pratiche di contenzione inutili e dannose, avviare un monitoraggio a livello nazionale, a opera del ministero della Salute, sull'utilizzo della contenzione meccanica negli Spdc, fino ad arrivare a un completo superamento di questa pratica.
(1) - Per un maggior dettaglio, si rimanda all'edizione 2014 del presente rapporto
(2) - Il discorso integrale del ministro della Giustizia è disponibile a questo link http://www.radioradicale.it/scheda/472504/stati-generali-dellesecuzione-penale
(3) - L’articolo 1 comma 1 della Convenzione Onu recita: “Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate”.
(4) - http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2016/07/18/c.destra-reato-tortura-indebolisce-p.s._d1056208-8444-4134-9f98-781d09afbb31.html
(5) - La vicenda è raccontata anche nella precedente edizione del Rapporto