Habeas corpus e garanzie

Scritto da: Federica Resta

Aggiornato al: 30/04/2019

Il punto della situazione


Proprio mentre, come vedremo, naufraga definitivamente ogni ipotesi di approvazione della riforma penitenziaria nel testo voluto dal Ministro Orlando nella scorsa legislatura, la popolazione detenuta- dopo la flessione, per quanto contenuta, degli anni compresi tra il 2010 e il 2015- torna a crescere in misura considerevole.

Fino a fine 2015, infatti, le presenze in carcere hanno registrato una tendenziale e progressiva riduzione, anche grazie alle modifiche normative introdotte a seguito della condanna dell’Italia da parte della Cedu con la sentenza “Torreggiani” del 2013. Dalle circa 68 mila presenze del giugno 2010, infatti, si è passati alle poco più di 52mila dell’ultimo semestre 2015. L’inversione di tendenza è tuttavia iniziata a fine 2016, quando al 31 dicembre si è registrata la quota di 54.653 presenze (con un tasso di popolazione detenuta per 100.000 abitanti pari a 90). Esse sono giunte a 55.381 il mese successivo e, quindi, a 56.863 il 31 maggio 2017, di cui 36.952 relative a condannati definitivi e 9.818 a non definitivi, tra appellanti, ricorrenti, misti.

Gli ultimi dati statistici forniti dal Dap del Ministero della giustizia dimostrano come in quest’ultimo anno si sia consolidata la registrata tendenza alla crescita della popolazione penitenziaria, che al 31 dicembre 2018 risulta di 59.655 presenze totali (a fronte di una capienza regolamentare di 50.581), con 916 soggetti in semilibertà. Dei 59.655 detenuti presenti in totale negli istituti penitenziari, 39.738 sono definitivi e 19.565 imputati, dei quali 9.838 in attesa di primo giudizio e 9.727 condannati non definitivi, oltre a 330 internati ed altri 22 in situazione giuridica da definire perché transitoria.

Le proporzioni tra condannati definitivi e non, non sembrano molto alterate nel periodo di riferimento (sebbene sulla stampa si sia letto di una proporzione assai diversa nelle carceri del settentrione, con il 34% di detenuti in attesa di giudizio). Ma proprio la tendenza alla crescita della popolazione penitenziaria preoccupa e dimostra come, esauritasi la spinta dovuta alla cessazione dell’efficacia di previgenti, opportune misure, il sistema in sé presenti disfunzionalità che vanno con urgenza corrette.

Le cause di tale ripresa sono dovute, come sempre, a una molteplicità di fattori, dei quali però due hanno un peso specifico particolare. Da un lato la cessazione dell’efficacia della liberazione anticipata speciale (che ampliava di 30 giorni il beneficio altrimenti conseguibile), tale da determinare un rallentamento delle uscite e, quindi, un aumento delle permanenze in carcere. Dall’altro, l’esiguità del personale assegnato agli uffici dell’esecuzione penale esterna- essenziali per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e, in particolare, tenuti a predisporre il programma di trattamento per indagati o imputati cui sia stata riconosciuta la sospensione del procedimento con messa alla prova - ha ostacolato il pieno sviluppo di tali misure, che avrebbe comportato una significativa deflazione della popolazione penitenziaria.

Ed è ancora una volta la scarsa presenza di camere di sicurezza dove trattenere soggetti sottoposti per poche ore a misura precautelare (es. il fermo di polizia), ad aver determinato il ritorno del fenomeno delle “porte girevoli”- ovvero della detenzione in carcere per una notte di soggetti che non dovrebbero transitarvi- che il legislatore aveva inteso contrastare sin dal 2011, con il d.l. 201.

E il picco raggiunto dal numero di suicidi di persone private della libertà (53 solo nei primi undici mesi del 2018) dovrebbe far riflettere sulle condizioni di vita negli istituti penitenziari.


Ordinamento penitenziario: una riforma a metà?


In un contesto del genere quindi, tanto per esigenze deflattive quanto per il miglioramento delle condizioni di vita inframuraria sarebbe stato necessario approvare la riforma penitenziaria nel testo voluto dal Ministro Orlando (l. 103/2017). Essa, infatti, perseguiva importanti obiettivi in termini di decarcerizzazione e minimizzazione delle misure detentive, valorizzando le alternative, in funzione tanto deflattiva delle presenze in carcere quanto di promozione dell’efficacia rieducativa della pena e rimuovendo presunzioni di pericolosità ostative alla concessione di misure extracarcerarie (con, oltretutto, una irragionevole compressione dell’apprezzamento discrezionale del giudice sulla meritevolezza di un percorso di esecuzione penale meno afflittivo e più orientato al reinserimento sociale).

In particolare, limitandoci ai profili inerenti l’esecuzione penale nei confronti degli adulti, la delega prevedeva: la revisione della disciplina dell’accesso alle misure alternative, innalzando a 4 anni il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, rafforzando le garanzie del contraddittorio nel procedimento di sorveglianza (con la presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza); prevedendo come necessaria l’osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrando le previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; eliminando automatismi e preclusioni ostativi – sia per i recidivi che per gli autori di determinate categorie di reati- all’individualizzazione del trattamento rieducativo e alla differenziazione dei percorsi penitenziari in base alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato; rivedendo la disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati all’ergastolo, salvo per i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati (tra i quali i delitti di mafia e terrorismo); configurando attività di giustizia riparativa quali momenti qualificanti del percorso rieducativo sia in carcere sia nell’esecuzione di misure alternative; ampliando le opportunità di lavoro retribuito, sia all’interno che all’esterno del carcere, nonché di attività di volontariato e reinserimento sociale dei condannati; riconoscendo, infine, il diritto all’affettività delle persone detenute e internate, disciplinandone le modalità di esercizio. Il testo presentato dal Ministro Orlando al Consiglio dei Ministri a dicembre 2017 e presentato alle Camere ai fini dell’espressione dei prescritti pareri, pur privato della parte inerente la tutela dell’affettività del detenuto (integrante un preciso criterio di delega nella l. 103), raggiungeva comunque un buon equilibrio tra le contrapposte esigenze. La portata innovativa del decreto era, tuttavia, poi stata già in parte attenuata dall’esigenza di recepire alcuni dei rilievi avanzati dalle Commissioni parlamentari, come risulta dal testo inviato al Consiglio dei Ministri il 15 marzo 2018, a legislatura ormai conclusa.

Con l’insediamento del nuovo Governo, la delega legislativa è stata nuovamente esercitata secondo direttrici alquanto diverse da quelle sottese alla riforma presentata dal precedente esecutivo.

Dei testi approvati dal Consiglio dei Ministri il 27 settembre 2018 rilevano in particolare, ai nostri fini, quelli poi divenuti d.lgs. n. 123 e 124/2018, recanti appunto modifiche all’esecuzione penitenziaria nei confronti degli adulti. I testi recano innovazioni pur importanti, limitatamente all’organizzazione della vita penitenziaria e al lavoro, ma non può condividersi l’espunzione delle parti più determinanti, relative all’estensione dell’ambito applicativo delle misure alternative, mediante eliminazione di molte delle presunzioni di pericolosità e preclusioni, ostative appunto alla concessione di tali misure.

In linea generale, appare alquanto regressiva l’eliminazione, dal testo, delle norme volte ad ampliare i requisiti per l’accesso alle misure alternative sopprimendo le preclusioni sancite, della revisione della disciplina della liberazione condizionale, nonché della previsione di un’innovativa misura, di carattere terapeutico, per l’affidamento in prova di soggetti condannati, i quali soffrano di infermità psichica.

Innovazioni positive ve ne sono, sicuramente, ma contenute e non tali da incidere sul sovraffollamento penitenziario.

Tra le previsioni opportune si segnala, anzitutto, la riscrittura della nozione di “trattamento e rieducazione”, valorizzando il principio rieducativo, il divieto di discriminazione e l’esigenza di garantire l’autonomia, la socializzazione, l’integrazione e la responsabilità del detenuto contro quelle forme di “infantilizzazione” e degradazione che caratterizzano spesso la vita in carcere, violando la dignità della persona. Dispiace tuttavia l’abbandono, rispetto al testo precedentemente proposto, del riferimento espresso all’istituto (richiamato tra i criteri direttivi per l’esercizio della delega) della sorveglianza dinamica (che mira a conformare il più possibile la vita in carcere a quella esterna, ad eccezione dei soli profili incompatibili) e all’incomprimibilità dei diritti dei detenuti in ragione della mera scarsità delle risorse. Tuttavia, l’ordito normativo ne recepisce poi in larga parte le implicazioni, promuovendo la condivisione degli spazi di socialità e, per altro verso, il massimo dell’autonomia compatibile con le esigenze di sicurezza dell’istituto, favorendo la partecipazione attiva e responsabile del detenuto al percorso trattamentale, in funzione rieducativa. Importante anche la valorizzazione del principio di prossimità nell’esecuzione della pena, con l’affermazione del diritto del detenuto all’assegnazione a un istituto prossimo al suo principale centro di riferimento in termini affettivi o assistenziali.

Per garantire l’effettività del diritto alla non discriminazione, si introducono modifiche volte al superamento delle sezioni protette, subordinando al consenso dell’interessato l’assegnazione a sezioni separate, comunque nell’ambito di reparti adibiti alle categorie omogenee, così da evitare quella promiscuità suscettibile di determinare forme di discriminazione per ragioni, ad esempio, di orientamento sessuale.

Opportuna, certamente, la sostituzione del riferimento al disadattamento sociale con quello alle carenze psico-fisiche quali eventuali cause del comportamento deviante, con un positivo riferimento all’esigenza di una riflessione, da parte del condannato, sul fatto commesso e sulle conseguenze per la vittima. Si sancisce, in tal modo, l’abbandono dell’impostazione deterministica comunque sottesa alla legge del 1975, coniugando anche l’esigenza dell’individualizzazione del trattamento con l’approccio riparativo.

Condivisibili anche le modifiche relative alle procedure volte a facilitare la richiesta di concessione di misure alternative o benefici penitenziari da parte di chi non disponga, a tal fine, di risorse culturali, giuridiche (a volte finanche linguistiche).

Pur in assenza della previsione dei “colloqui intimi” – liberi cioè dalla sorveglianza - si è espressamente sancito il diritto del detenuto di incontrare il proprio difensore sin dall’inizio dell’esecuzione della pena o della custodia cautelare, sala la sussistenza di speciali esigenze che ne legittimino una dilazione ex art. 104 cpp, con provvedimento giudiziale. Positive anche le modifiche in tema di isolamento, laddove si prevede la garanzia delle “normali condizioni di vita”, eccetto che per i profili incompatibili con le ragioni che ne hanno causato l’applicazione.

Degno di nota è, poi, il previsto incremento delle opportunità di lavoro retribuito e di volontariato individuale, concepito non in chiave afflittiva ma di reinserimento sociale del condannato.

Benché rilevanti sotto il profilo dell’organizzazione della vita penitenziaria, queste innovazioni contenute nella riforma penitenziaria sono comunque inidonee a contenere il sovraffollamento penitenziario e a contribuire alla perdita di centralità (ancora fortissima) del carcere in favore di misure, quali le alternative alla detenzione, maggiormente efficaci ai fini del reinserimento sociale dei condannati perché, appunto, meno de-socializzanti.

Dispiace, insomma, che si sia così radicalmente depotenziata una riforma che avrebbe potuto apportare innovazioni davvero significative alle condizioni del nostro sistema penitenziario, togliendo centralità al carcere nel sistema dell’esecuzione penale.

Questo, peraltro, tanto più dopo che la Corte EDU, il 25 ottobre 2018, ha condannato l’Italia per l’illegittimità del regime penitenziario speciale (ex art. 41-bis) inflitto a Bernardo Provenzano negli ultimi suoi quattro mesi di vita, nonostante le sue gravi condizioni di salute ne comportassero un grave decadimento cognitivo e motorio, tale da far ritenere del tutto inverosimile la persistenza di quei legami con l’organizzazione criminale di riferimento che il “carcere duro” mira appunto a recidere.


Il decreto-legge sicurezza


Indicazioni migliori non giungono, del resto, dai principali provvedimenti all’esame del Parlamento caratterizzati dalla tendenza all’estensione dell’area del penalmente rilevante o comunque delle misure (anche formalmente amministrative) limitative della libertà personale.

Significativo, in tal senso, il decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, in materia di sicurezza pubblica, attualmente all’esame della Camera in sede di conversione, che (oltre ad aver fortemente ristretto i titoli di soggiorno per ragioni di protezione) prevede anzitutto l’irragionevole estensione a 180 giorni, dai 90 precedenti (così stabiliti con emendamento Manconi-Lo Giudice alla legge europea-bis 2014), del termine massimo di trattenimento nei centri per il rimpatrio.

Tale ennesima estensione del tempo di trattenimento – che carsicamente torna ad essere disposta ogniqualvolta la maggioranza di governo intenda fare della questione immigrazione materia esclusivamente di politica penale, in chiave strumentale – è del tutto irragionevole in quanto inefficace rispetto al dichiarato fine di agevolare l’identificazione dei migranti da rimpatriare.

La Commissione De Mistura - che nella XV legislatura ha approfondito la questione del rapporto tra trattenimento, detenzione, identificazione e rimpatrio- ha infatti dimostrato come l’acquisizione degli elementi identificativi necessari a tal fine avviene sistematicamente entro sessanta giorni ove tali elementi siano reperibili, chiarendo quindi come il trattenimento per periodi ulteriori sia del tutto inutile allo scopo. L’ulteriore estensione (anzi, il raddoppio) del termine di trattenimento nei centri per il rimpatrio rappresenta dunque un ulteriore, del tutto inutile inasprimento di una misura già di pe sé di dubbia costituzionalità, comportando la limitazione della libertà personale in assenza della commissione di alcun illecito penale.

Ai nostri fini, tra le disposizioni rilevanti del decreto-legge si ricordano, poi, quella inerente l’estensione dell’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione del daspo. Esso, infatti, potrà essere disposto anche nei confronti di indiziati per terrorismo e altri reati contro l’ordine pubblico e potrà riguardare il divieto di accesso ad ulteriori luoghi pubblici e persino di cura.

Si tratta di un’estensione tanto più inopportuna in quanto inerisce a una misura già di per sé di dubbia legittimità costituzionale, al pari del resto delle altre misure preventive “praeter delictum”, che pur apportando incisive limitazioni delle libertà del soggetto, non presuppongono la commissione di alcun reato.

L’area del penalmente rilevante è, per altro verso, ulteriormente estesa a comportamenti spesso, in concreto, carenti di reale offensività (e per questo integranti, sinora, meri illeciti amministrativi), quali il blocco stradale o l’occupazione di edifici. Ancora una volta, l’intervento penale si concentra in chiave prevalentemente simbolica su comportamenti fonte non tanto di danno individuale e sociale, ma di una mera percezione di insicurezza, secondo la teoria delle Broken Windows che ha ispirato l’azione dell’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani.




Il disegno di legge sulla corruzione: riforma della prescrizione, divieto di concessione di misure alternative, operazioni sotto-copertura (o agente provocatore?)


Un’idea anch’essa principalmente simbolica dell’intervento penale è sottesa, del resto, al disegno di legge per il contrasto della corruzione attualmente all’esame della Camera dei deputati (AC 1189).

Tra le disposizioni di rilievo si segnalano, in particolare, quelle inerenti il complessivo inasprimento del trattamento sanzionatorio di molti delitti contro la pubblica amministrazione, mediante l’estensione della durata delle pene detentive e la previsione delle misure accessorie dell’ interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’ incapacità di contrarre con la p.a. anche per condanne a pene superiori ai due anni di reclusione e persino per i dodici anni successivi alla riabilitazione.

Si tratta di previsioni di assai dubbia legittimità costituzionale, in primo luogo in quanto prevedono pene fisse, in contrasto con i principi di proporzione tra reato e sanzione e con lo stesso canone di eguaglianza-ragionevolezza, a fronte dell’applicabilità della stessa misura accessoria per reati di disvalore assai disomogeneo.

In secondo luogo, la persistenza di tali effetti penali della condanna per un periodo di tempo (dodici anni) così lungo pur successivamente alla riabilitazione – funzionale, appunto, al reinserimento sociale effettivo di un condannato che abbia dato buona prova di sé- contrasta con la ratio e il fine di questo fondamentale istituto, diretta espressione del principio rieducativo della pena di cui all’art. 27 Cost.

Parimenti irragionevole è l’ulteriore estensione dei reati (tra i quali, appunto, si inseriscono alcuni reati contro la pubblica amministrazione), ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione di cui all’art. 4 bis ord.pen..

Si tratta di previsioni irragionevoli e di dubbia compatibilità con il finalismo rieducativo della pena, come accade per l’intera categoria delle preclusioni e degli automatismi ostativi alla concessione di misure non solo volte a individualizzare la pena concretamente eseguita tenendo conto dell’evoluzione della personalità del condannato (e non solo del mero titolo del reato ascritto), ma anche maggiormente idonee a favorirne (proprio perché non de socializzanti) il reinserimento sociale e, quindi, anche a prevenirne il rischio di recidiva.

Evidente, anche in questo caso, la logica nettamente contraria a quella ispiratrice della riforma penitenziaria Orlando che, infatti, l’attuale maggioranza ha ritenuto di disattendere, nell’esercizio della delega legislativa in materia.

Il disegno di legge introduce, peraltro, ulteriori ipotesi di attività sotto copertura volte a facilitare la raccolta di elementi di prova rispetto ai reati contro la pubblica amministrazione. Sebbene la relazione illustrativa del disegno di legge dichiari di aver introdotto una misura che non configura un’ipotesi di agente provocatore ma solo infiltrato – secondo la distinzione tracciata dalla Corte Edu - , così da non legittimare la provocazione, da parte degli organi di polizia, di chi ancora non abbia commesso un reato a farlo, tuttavia il disposto normativo è meno tassativo. In ragione dell’assenza di un espresso riferimento alla necessità di ricercare elementi di prova inerenti reati che si ritengano ragionevolmente in corso di realizzazione, vi è infatti il concreto rischio – segnalato peraltro dal presidente dell’Anac Raffaele Cantone, in sede di audizione – che quest’ipotesi di attività sotto copertura degeneri invece nell’illegittima figura dell’agente provocatore, essendo gli elementi di prova così prodotti, di fatto, una probatio diabolica.

Infine, con emendamento n. 1129, si è introdotta nel disegno di legge un’incisiva revisione della disciplina della prescrizione del reato, il cui corso viene sospeso dopo la condanna di primo grado o il decreto penale. Si tratta, evidentemente, di una forma di “ergastolo processuale” (com’è stata definita in sede di audizione sul testo) del tutto incompatibile con la ratio e la finalità dello stesso istituto della prescrizione, fondato sull’idea del naturale venir meno dell’istanza punitiva a distanza di un lasso di tempo sufficientemente lungo dalla commissione del fatto e sull’esigenza di non giudicare persone che, in considerazione del tempo trascorso, possono aver intrapreso un percorso tale da renderle radicalmente “altre” rispetto alla soggettività espressa con la commissione del reato. Naturalmente, ove confermata definitivamente, l’approvazione di tale misura estenderebbe ulteriormente le condizioni per la detenzione nei confronti di imputati i quali diverrebbero, in tal modo, “eterni giudicabili” e come tali soggetti anche, ove ne ricorrano i presupposti, all’applicazione di misure cautelari di tipo anche custodiale.