Aggiornato al: 30/04/2019
Tra le diverse questioni emerse nel corso dell’ultimo periodo, pare poter assumere un valore paradigmatico quella relativa alla “segregazione” delle persone con disabilità, tema inevitabilmente correlato all’effettiva garanzia del diritto a una vita indipendente, all’autodeterminazione e all’inclusione nella società.
Il sostegno ai percorsi di vita indipendente, alle misure di assistenza indiretta e alla domiciliarità, sembra, infatti, continuare ad avere un carattere esclusivamente residuale rispetto a interventi predefiniti e gestiti direttamente dagli enti pubblici come, in particolare, l’inserimento in struttura. Nella sua Relazione al Parlamento 2018, il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale rileva come nell’ambito degli interventi e dei servizi rivolti alle persone con disabilità emergano sempre più diffusamente “sintomi di “sanitarizzazione”, dettati dalla mancata attivazione o dal mancato coordinamento di supporti per il vivere nel proprio contesto abitativo e sociale abituale”. Considerazioni che confermano quanto il Comitato Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità segnalava nelle sue Osservazioni, esprimendo preoccupazione per la “tendenza a re-istituzionalizzare le persone con disabilità e per la mancata riassegnazione di risorse economiche dagli istituti residenziali alla promozione e alla garanzia di accesso alla vita indipendente per tutte le persone con disabilità nelle loro comunità di appartenenza”.
Anche in relazione a tale situazione bisogna rilevare la quasi totale assenza di impegni e riferimenti alle prospettive di attuazione del secondo Programma d’azione per la disabilità, in cui si evidenzia, tra le altre cose, l’importanza di considerare la promozione della vita indipendente e il sostegno all’autodeterminazione non più come “settori” dell’intervento di welfare quanto piuttosto “criteri ispiratori complessivi del sistema”.
L’occupazione continua a essere un miraggio per la maggior parte delle persone con disabilità. Secondo i dati 2017 dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle regioni italiane, soltanto il 18% dei 775.000 disabili iscritti alle liste di collocamento ha trovato un'occupazione.
L’accessibilità come “tema ubiquitario e trasversale” pare essere ancora lontana dal diventare “principio chiave per sostenere processi inclusivi e la piena partecipazione”, se, a titolo puramente esemplificativo, la normativa per l’eliminazione delle barriere architettoniche (Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche, PEBA, l. 41/1986), è disattesa da circa 30 anni su quasi tutto il territorio nazionale, testimoniando la permanenza di barriere culturali, oltre che architettoniche, profondamente radicate nel nostro paese.
Continuano a essere numerosi, e di particolare gravità, gli episodi di discriminazioni e violenze subiti dalle persone con disabilità relativamente ai quali il Comitato ONU, nelle sue Osservazioni, aveva espresso preoccupazione, segnalando, in particolare, l’assenza d’interventi specifici per il contrasto alle discriminazioni plurime, di cui sono oggetto, in particolare, donne, minori e migranti. A far da sfondo a tali violenze e discriminazioni si rileva, in diversi interventi e dichiarazioni, la diffusione di pregiudizi e considerazioni fortemente stigmatizzanti.
Per contrastare questa “deriva” appare prioritario sviluppare un percorso culturale, capace di contribuire alla realizzazione di una società realmente inclusiva, fondata sul riconoscimento e sul rispetto dei diritti di tutti perché, come ben evidenziato dalle parole del Garante: “Nessuna azione di monitoraggio o di prevenzione può essere scissa dal fornire un contributo alla crescita culturale. Perché la democrazia la si costruisce nelle Istituzioni, nelle culture diffuse, ancor prima che nell’utilizzo di strumenti di controllo e di sanzione”.
Alcune perplessità, in ultimo, ha sollevato la recente istituzione di un Ministero specifico per la disabilità che, sempre secondo il Garante, è auspicabile possa esser letta: “come l’indicazione di una accelerazione nel processo d’integrazione dei relativi problemi all’interno del quadro complessivo della tutela dei diritti di tutti e non come separazione da quest’ultimo”.
Il 5 luglio 2018 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto contenente le deleghe a Lorenzo Fontana, neo-Ministro senza portafoglio alla Famiglia e alle Disabilità (Sottosegretario Vincenzo Zoccano). In particolare all’articolo 4 sono indicate le funzioni delegate in materia di disabilità. La delega riguarda tutte le funzioni (d’indirizzo, di coordinamento e di promozione d’iniziative, anche normative, di vigilanza e verifica, …) attribuite al Presidente del Consiglio dei Ministri e, salve le competenze attribuite dalla legge ai singoli Ministri, la “promozione e il coordinamento delle politiche governative volte a garantire la tutela e la promozione dei diritti delle persone con disabilità e a favorire la loro piena ed effettiva partecipazione e inclusione sociale, nonché la loro autonomia, …” (art. 4 commi 1, 2).
A tali fini il Ministro è delegato, d’intesa con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con gli altri Ministri competenti, a:
a) adottare le iniziative necessarie per la programmazione, l'indirizzo, il coordinamento ed il monitoraggio delle politiche di sostegno delle persone con disabilità (anche con riferimento alla revisione del sistema di certificazione della condizione di disabilità);
c) promuovere e coordinare le attività finalizzate all'attuazione del principio di parità di trattamento, pari opportunità e non discriminazione (anche con riguardo alle politiche per l'inclusione lavorativa e scolastica);
d) assicurare la piena attuazione della normativa in materia di disabilità (con riferimento al Programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l'integrazione delle persone con disabilità);
e) sviluppare una governance coordinata tra i diversi livelli di Governo delle prestazioni e dei servizi socio-sanitari ed educativi in favore delle persone con disabilità e favorire l'adozione di buone pratiche per la realizzazione di interventi anche in materia di vita indipendente e contrasto alla segregazione e all'isolamento delle persone con disabilità;
f) potenziare l'informazione statistica sulla condizione di disabilità e sviluppare sistemi di monitoraggio e analisi delle politiche in favore delle persone con disabilità;
g) curare il raccordo con le organizzazioni a vario titolo rappresentative delle persone con disabilità;
h) promuovere e coordinare le attività di informazione e comunicazione istituzionale in materia di politiche a favore delle persone con disabilità.
Al “secondo” comma 2 (probabile refuso) vi è, poi, la delega a cooperare in materia di programmazione e utilizzo delle risorse dei diversi Fondi dedicati, e al comma 3 è prevista la delega a cooperare e raccordarsi con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali: “ai fini dello svolgimento dei compiti attribuiti all'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, …”.
Il Ministero per la famiglia e le disabilità (Ministero senza portafoglio), è stato previsto dal “Contratto di Governo” che, al punto 16 “Ministero per le disabilità”, ne andava a delineare sommariamente ruolo, contenuti e compiti. Tale novità era già stata anticipata dall’attuale Ministro dell’Interno che auspicava la costituzione di “Un Ministero per le disabilità” in piena campagna elettorale, il 21 febbraio 2018, prima su RepTv poi su La7, annunciando la sua volontà di centralizzare politiche e interventi riguardanti le persone con disabilità. Già allora, a seguito di queste dichiarazioni, erano stati sollevati alcuni dubbi sull’opportunità di individuare un Ministero “speciale”, piuttosto che rafforzare trasversalmente politiche, investimenti e competenze dei diversi Ministeri relativamente alle persone con disabilità. Interrogativi che sono stati riproposti dopo la costituzione del Ministero e ben sintetizzati nelle parole di Salvatore Nocera (ex Vicepresidente FISH): “Che senso ha un nuovo Ministero della Famiglia e delle Disabilità? E cosa vuole esattamente significare l’abbinamento del Ministero delle Disabilità a quello della Famiglia? […] Creare un nuovo Ministero, per giunta senza portafoglio, non può significare che le politiche sulle disabilità siano un settore a parte, in discontinuità con le scelte culturali e politiche inclusive realizzate in Italia da cinquant’anni?” Anche per rispondere a tali perplessità, sono arrivate le rassicurazioni del sottosegretario Zoccano che ha affermato: “L’istituzione del Ministero della disabilità non è una scelta ghettizzante, ma l’esatto opposto, perché mira a garantire la trasversalità che è necessaria quando si parla di provvedimenti che toccano la disabilità”. Tuttavia è opportuno ricordare che, a garanzia di questa “trasversalità” e della piena attuazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, esiste già un organismo, l’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, peraltro richiamato nel Decreto di delega, che, dopo diversi mesi dall’insediamento del nuovo Governo, non è ancora stato convocato. L’Osservatorio, presieduto dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, è stato istituito con la legge 18/2009, e ha i seguenti compiti:
a) promuovere l'attuazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità;
b) predisporre un programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l'integrazione delle persone con disabilità, in attuazione della legislazione nazionale e internazionale;
c) promuovere la raccolta di dati statistici che illustrino la condizione delle persone con disabilità, anche con riferimento alle diverse situazioni territoriali;
d) predisporre la relazione sullo stato di attuazione delle politiche sulla disabilità;
e) promuovere la realizzazione di studi e ricerche che possano contribuire ad individuare aree prioritarie verso cui indirizzare azioni e interventi per la promozione dei diritti delle persone con disabilità.
E’ auspicabile che alla duplicazione di alcuni compiti e funzioni, avvenuta con l’istituzione del nuovo dicastero per le disabilità, non corrisponda una marginalizzazione di tale organismo, trascurandone gli importanti contributi, a partire dalla predisposizione del Programma di Azione
Secondo Programma di Azione.
Il 12 dicembre 2017) è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il secondo Programma di Azione Biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità. Il secondo Programma di Azione, così come il primo, è stato predisposto dall’Osservatorio nazionale. La sua approvazione è stata accolta con grande soddisfazione dalle due principali associazioni di rappresentanza delle persone con disabilità a livello nazionale: FAND e FISH. In particolare Vincenzo Falabella, Presidente della FISH, ha dichiarato: “Questo è un atto programmatico di grande rilevanza, alla cui stesura la nostra Federazione ha stabilmente collaborato con un impegno convinto e decisivo. L’approvazione di esso giunge quanto mai opportuna e gradita nell’imminenza dell’insediamento del nuovo Osservatorio Nazionale sulla Disabilità, presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, al quale parteciperemo con rinnovata convinzione”.
La redazione del Programma di Azione da parte dell’Osservatorio Nazionale è prevista dalla legge 18/09 di ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che ne è anche cardine e punto di riferimento fondamentale, avendo segnato “il definitivo passaggio da una visione delle persone con disabilità “come malate e minorate” ad una visione della condizione di disabilità basata sul rispetto dei diritti umani, tesa a valorizzare le diversità umane – di genere, di orientamento sessuale, di cultura, di lingua, di condizione psico-fisica e così via – e a considerare la condizione di disabilità non come derivante da qualità soggettive delle persone, bensì dalla relazione tra le caratteristiche delle persone e le modalità attraverso le quali la società organizza l’accesso ed il godimento di diritti, beni e servizi”.
Il Programma si articola in otto linee d’intervento (una in più rispetto al precedente), che a loro volta si declinano in un gran numero di azioni specifiche. Nella parte introduttiva sono indicate sinteticamente quelle che sono da considerarsi come le sfide più impegnative per ogni linea d’intervento:
1) Riconoscimento/certificazione della condizione di disabilità. Il Programma d’Azione si apre rilanciando il tema di una riforma ampia e strutturale dell’attuale sistema di certificazione della condizione di disabilità, chiedendo una legge delega che affronti la tematica in modo globale, anche al fine di permettere l’accompagnamento delle Persone con Disabilità nello sviluppo e articolazione di un “progetto personalizzato” di intervento con la ricomposizione di tutti i sostegni necessari all’inclusione sociale e all’esercizio dei diritti. […]
2) Politiche, servizi e modelli organizzativi per la vita indipendente e l’inclusione nella società. Corollario di un nuovo approccio alla condizione di disabilità è il riorientamento dei servizi verso l’inclusione sociale e il contrasto attivo alla istituzionalizzazione e segregazione della Persona con Disabilità. La promozione della vita indipendente e il sostegno all’autodeterminazione non sono più da considerare “settori” dell’intervento di welfare quanto piuttosto criteri ispiratori complessivi del sistema. […]
3) Salute, diritto alla vita, abilitazione e riabilitazione. Coerentemente con una visone bio-psico-sociale della disabilità il Programma d’Azione riconosce l’importanza cruciale della tutela della salute e individua tutta una serie di azioni specifiche e puntuali per arricchire e consolidare i Livelli Essenziali di Assistenza e l’integrazione sociosanitaria. […]
4) Processi formativi ed inclusione scolastica. La linea di intervento su scuola e formazione delinea una ricca serie di azioni che vanno tutte nel senso di consolidare e rendere più efficace il processo di inclusione scolastica. Altro tema è poi quello della continuità tra orientamento/formazione e transizione al lavoro e l’accesso degli adulti con disabilità a percorsi d’istruzione e formazione permanente. […]
5) Lavoro e occupazione. Sono proposti una serie importante di interventi volti a aggiornare puntualmente aspetti specifici della normativa per renderla più efficace nell’offrire occasioni di lavoro e la sicurezza dei lavoratori. Linee di lavoro specifiche riguardano la qualità dei servizi di collocamento mirato su tutto il territorio nazionale e l’istituzione dell’Osservatorio aziendale e il “disability manager”. […]
6) Promozione e attuazione dei principi di accessibilità e mobilità. L’accessibilità è un tema ubiquitario e trasversale a tutto il Programma d’Azione, principio chiave per sostenere processi inclusivi e la piena partecipazione delle Persone con Disabilità. La linea progettuale specifica indica la necessità di procedere ad una importante revisione della normativa italiana in tema di accessibilità dell’ambiente fisico, urbano ed architettonico. Indicazioni specifiche riguardano poi l’accessibilità dell’informazione. […]
7) Cooperazione internazionale. Il Programma d’Azione sostiene l’azione di formazione, diffusione e confronto su temi cruciali quali la gestione delle emergenze, progettazione inclusiva, e la sensibilizzazione e informazione rivolta alla società civile e alle sue forme organizzate. […]
8) Sviluppo del sistema statistico e di reporting sull’attuazione delle politiche. Il Programma d’Azione propone un consolidamento delle indagini correnti ma anche lo sviluppo di nuove statistiche in particolare in un settore cruciale come quello della salute mentale e della disabilità intellettiva. […]
Purtroppo non può essere registrata positivamente l’assenza di riferimenti ed impegni relativamente alle prospettive di attuazione dell’attuale Programma di Azione, anche in relazione al fatto che delle 127 azioni previste dal precedente, pochissime sono state quelle su cui si è potuto lavorare e ancor meno quelle portate a termine, evidenziando come, in assenza di stanziamenti, tempi certi e misure concrete, anche il nuovo Programma di Azione, rischi di tradursi nell’ennesima dichiarazione d’intenti e diritti destinati a restare, in gran parte, solo sulla carta. La crisi delle adozioni internazionali: nota di aggiornamento
“Segregazione significa separazione forzata dal resto della comunità. Significa l’obbligo, di vivere in una particolare sistemazione dove non è possibile scegliere dove e con chi vivere, frequentare certi luoghi e certi ambienti, a causa della propria disabilità”(1).
Affrontare questo tema in modo non retorico, significa individuare le modalità per “impedire che persone con disabilità subiscano forme di segregazione”. Questo è quanto ha affermato, in un passaggio della Relazione al Parlamento 2018, il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, che rileva la necessità del costante monitoraggio di tutte le strutture che sul territorio nazionale accolgono persone con disabilità con l’obiettivo di impedire che: “subiscano forme di segregazione o forme improprie di riduzione degli spazi di libertà, nonché trattamenti inumani o degradanti, proteggendole da qualsiasi forma di violenza, di abuso o maltrattamento”. Il Garante evidenzia come per le persone con disabilità i servizi residenziali, di tipo familiare o comunitario, sono la tipologia più diffusa d’intervento rispetto ai diversi servizi per l’abitare e, pur nella consapevolezza che la segregazione può avvenire in tutti i contesti e nel corso delle diverse fasi della vita, proprio nell’ambito di tali servizi residenziali aumenta il rischio di violenza, segregazione o limitazione della libertà (basti pensare alle 15 misure cautelari emesse, nel mese di marzo, nei confronti del personale di una struttura riabilitativa a Venosa (Potenza), per maltrattamenti ripetuti e violenti, e agli 11 rinvii a giudizio, nel mese di maggio, di operatori e amministratori di un’altra struttura riabilitativa ad Assisi, per atti di aggressione fisica e psicologica, con costante ricorso alla violenza).
Vi è, tuttavia, una certa differenza tra due diversi tipi di soluzioni residenziali:
quelle “familiari” sono caratterizzate da piccole dimensioni, numeri di posti letto ridotti e da un’organizzazione che riproduce tempi e caratteristiche della vita in famiglia;
quelle “comunitarie” sono di dimensioni più ampie con un numero di posi letto superiore ai 6 e con un’organizzazione più standardizzata e di tipo comunitario.
Dall’analisi degli ultimi dati Istat disponibili, relativi al 2014, in Italia risultavano attivi “13.203 presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari”, al cui interno erano ospitate 273.316 persone con disabilità e non autosufficienza. Di queste 218.576 (83%) risultavano essere anziani non autosufficienti (nel 98,3% dei casi ospitati in strutture che non riproducono le condizioni di vita familiari), 3.147 minori con disabilità e disturbi mentali, 51.593 come adulti con disabilità e patologia psichiatrica. Dei 32.648 posti letto dedicati alle persone con disabilità rientranti in quest’ultimo gruppo, il 93,2% risultano collocati in strutture che non riproducono l’ambiente della casa familiare (percentuale lievemente più bassa, 84,6%, per i 18.046 posti letto dedicati alle persone con disturbi mentali).
Parliamo, quindi, del prevalere, nell’area della disabilità e della non autosufficienza, di un carattere della residenzialità definito come “comunitario”, in alternativa a quello di tipo “familiare”, nonostante sia lo stesso Garante ad evidenziare che le sistemazioni residenziali meno strutturate, come quelle di tipo familiare, siano “le soluzioni che in misura maggiore si offrono alla promozione e alla realizzazione del principio di vita indipendente, perché danno alla persona la possibilità di prendere decisioni autonome, prevedono supporti e un uso mirato di sussidi. […] Non bisogna, infatti, dimenticare che il primo diritto da tutelare è il diritto all’autodeterminazione che porta la persona al centro delle decisioni”.
Il monitoraggio delle strutture, seppur fondamentale, non può esaurire il lavoro di contrasto alla segregazione. E’ cruciale garantire “l’eguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità, con la stessa libertà di scelta delle altre persone” (art. 19 Convenzione ONU, che è la legge 18/09).
Eppure in Italia per le persone con disabilità pare ancora lontana la garanzia del diritto di vivere a casa propria: “dato infatti che le ore di assistenza erogate dagli enti sono poche, ad oggi l’unico diritto esigibile è quello di vivere in una struttura residenziale, e vi finisce chi non ha il sostegno di familiari, partner o amici. Vivendo però in una residenza “per persone disabili”, viene meno il diritto all’autodeterminazione e alla libertà personale, si è sottoposti ad orari rigidi e limitazioni di ogni tipo, si è sradicati dal proprio territorio, quartiere e cerchia sociale”. Con queste parole Maria Chiara e Elena Paolini, due sorelle disabili (“più precisamente, da sole, non riusciamo a fare quelle cose che la gente di solito fa se vuole restare viva”), riportano l’attenzione su un tema cui il Garante ha prestato particolare attenzione nella sua relazione al Parlamento: la vita indipendente e l’inclusione nella società. Il rispetto dell’art. 19 della Convenzione ONU, rappresenta, infatti, la principale strada da percorrere per evitare la segregazione, dal momento che in esso si afferma “il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone” e si richiede l’adozione di “misure efficaci e adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società”. Tale diritto si concretizza, in particolare, tramite la garanzia che:
Il Garante specifica come l’effettività di questo diritto escluda “la scelta obbligata di andare a vivere in un determinato luogo abitativo a causa dell’assenza di adeguati supporti che, se attivati, consentirebbero invece alla persona di rimanere in un contesto abitativo autonomo e di ridurre così il rischio di esposizione a possibili forme di isolamento o di segregazione”. In tale prospettiva sono da valutare eventuali responsabilità anche degli Enti locali. Un costante richiamo a queste responsabilità istituzionali arriva dalle diverse associazioni e/o reti di persone con disabilità (FISH, FAND, ENIL, #liberidifare, #siamohandicappatinocretini, i comitati per la vita indipendente delle Marche, della Toscana, …), che periodicamente devono organizzare manifestazioni ed iniziative per portare all’attenzione pubblica il problema.
Purtroppo, però, ad aggravare una ormai cronica insufficienza di fondi, si aggiunge il fatto che il sostegno ai percorsi di vita indipendente, alle misure di assistenza indiretta e alla domiciliarità, sembra continuare ad avere un carattere esclusivamente residuale e sperimentale rispetto a interventi predefiniti e gestiti direttamente dagli enti pubblici come, in particolare, l’inserimento in struttura. Questo nonostante nelle Osservazioni Conclusive del Comitato Onu al primo Rapporto sull’implementazione della Convenzione ONU, si esprimesse la preoccupazione per la “tendenza a re-istituzionalizzare le persone con disabilità e per la mancata riassegnazione di risorse economiche dagli istituti residenziali alla promozione e alla garanzia di accesso alla vita indipendente per tutte le persone con disabilità nelle loro comunità di appartenenza”.
Per comprendere la centralità di quest’aspetto vale la pena riprendere quanto riportato, a titolo esemplificativo, dalla Regione Emilia Romagna sull’assegno di cura: “un sostegno economico destinato alle persone in situazione di handicap grave che può essere erogato direttamente alla persona disabile, alla sua famiglia o ad altre persone che assistono la persona con disabilità. È alternativo all’inserimento in una struttura residenziale e permette alla persona con disabilità di rimanere nel proprio contesto sociale e affettivo, nonché di condurre una vita il più possibile indipendente”. Le risorse destinate a tale sostegno ammontano a un massimo di 45 euro giornalieri (nel caso di persone che oltre ad avere la situazione di gravissima disabilità, presentano ulteriori bisogni di particolare intensità sulle 24 ore: ventilazione artificiale, …). Se confrontiamo tale cifra con i costi che la stessa Regione sostiene per una giornata di accoglienza in struttura residenziale pari a 164,8 euro (con scostamenti verso l’alto in alcuni comuni come a Modena in cui la cifra è di 184 euro), è evidente una disparità d’investimenti che, inevitabilmente, si ripercuote sulle reali possibilità di scelta e d’inclusione sociale delle persone e sulle vite delle famiglie. Tale divario è, infatti, frequentemente compensata sia dando fondo alle riserve economiche familiari, sia dall’attività di cura svolta dai parenti, che continua a essere la principale risorsa cui ricorrere, nonostante, come indicato da un recente studio del CENSIS, gli impatti significativi nella vita lavorativa e sociale, nell’uso del tempo libero e nello stato di salute dei caregiver: “Il 36,9% dichiara che il lavoro di cura ha avuto delle ricadute sulla propria occupazione, che vanno dai problemi per le ripetute assenze sul lavoro, alla necessità di chiedere il part-time, fino alla scelta di andare in pensione o alla perdita del lavoro”(2). Continuano, inoltre, a essere soprattutto le donne a farsi carico delle necessità di cura e assistenza, con tutte le conseguenze che ne derivano, in particolare rispetto alle possibilità di partecipazione al mercato dell’occupazione.
Nel capitolo tematico della Relazione del Garante relativo a “Disabilità e inclusione”, è indicata come fonte di preoccupazione l’aver rilevato, in diverse parti d’Italia, l’emergere sempre più diffuso di: “sintomi di “sanitarizzazione” dell’assistenza dettati dalla mancata attivazione o dal mancato coordinamento di supporti per il vivere nel proprio contesto abitativo e sociale abituale”.
In relazione a tale tendenza e ai rischi connessi al riproporsi di una cultura e una pratica dei “luoghi speciali” (peraltro mai veramente superata, basti pensare alla presenza sul territorio nazionale di diverse scuole speciali), pare significativo segnalare la recente trasmissione sulle reti televisive (dal 28/10 al 03/11) di una pubblicità promossa da una residenza sanitaria per persone con disabilità. Lo spot propone a ritroso l’ipotetica vita di una ragazza con disabilità, contrapponendo la “luminosa” vita che ha trovato nella residenza sanitaria in cui è stata inserita, all’oscura esistenza da cui è stata “liberata” e a cui era condannata prima, a casa sua. La storia si conclude con le parole “Giulia non vuole tornare indietro”. Pur trattandosi di un semplice spot, il messaggio che se ne ricava è quantomeno singolare e indicativo di una certa cultura che pare sempre più diffondersi: la “liberazione” della persona non passa attraverso la garanzia dei suoi diritti e il potenziamento di strumenti e risorse che le permettano di vivere una vita dignitosa nella sua casa e/o in altra soluzione abitativa da lei scelta. La “liberazione” non passa neppure attraverso un impegno comune per la realizzazione di una società inclusiva, in cui siano rimossi gli ostacoli e le barriere (culturali e architettoniche) che le impediscono di vivere e portare il proprio contributo al pari di tutti gli altri. La “liberazione” passa, invece, attraverso l’inserimento in una grande struttura residenziale di tipo comunitario, un “luogo speciale” in cui medici e assistenti (rigorosamente in camice) la curano, la nutrono e le propongono attività laboratoriali. Diverse critiche hanno accompagnato la diffusione dello spot, in particolare Maria Chiara Paolini (Liberi di Fare), ne ha ribaltato il messaggio attraverso la diffusione di un “contro-spot” che evidenzia come l’inserimento in struttura sia, troppo spesso, il triste risultato dell’assenza di adeguate politiche e risorse a sostegno della vita indipendente e della domiciliarità: “Di fronte alla diffusione di messaggi prodotti anche recentemente, che vorrebbero “normalizzare” ciò che noi consideriamo invece segregazione e che va contro alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, abbiamo deciso di realizzare un nostro spot, per far vedere come stanno davvero le cose dal punto di vista delle persone con disabilità che è il più importante da tenere in considerazione per le questioni legate alla disabilità. E anche per far vedere come stanno le cose dalla parte dei diritti umani”.
“La violenza contro le donne è una forma di discriminazione e una violazione dei loro diritti umani. […] E’ stato riconosciuto che le ragazze e le donne con disabilità possono sperimentare particolari forme di violenza nelle loro abitazioni e nelle sedi istituzionali, queste sono perpetrate da membri della famiglia, da assistenti personali o da sconosciuti. […] L’esclusione e l’isolamento dalla società delle donne con disabilità attuato attraverso scuole separate, istituti, ospedali o centri di riabilitazione, e la mancanza di ausili per la comunicazione e la mobilità, aumentano la loro vulnerabilità alla violenza e agli abusi sessuali, ed inoltre contribuiscono ad infondere un senso di impunità in chi compie tali atti violenti(3)”. Inoltre la difficoltà delle donne con disabilità psichica/intellettiva non solo a denunciare, ma persino a riconoscere come tali le violenze subite, ha come conseguenza il fatto che la violenza (domestica e non) “sulle donne con disabilità, e in particolare disabilità psichica o intellettiva, non viene quasi mai denunciata (solo nel 10% dei casi). Inoltre, le violenze domestiche nei loro confronti possono essere percepite come forme di educazione e correzione di comportamenti inadeguati(4)”.
Secondo i dati ISTAT 2014 il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. La situazione delle donne con problemi di salute o disabilità è ulteriormente critica: “ha subito violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi”. Guardando, poi al rischio di subire stupri o tentati stupri le percentuali raddoppiano: 10% contro il 4,7% delle altre donne.
Tali dati sembrano essere confermati dall’analisi dei questionari raccolti nell’ambito del Progetto Vera (Violence, Emergence, Recognition and Awareness), un’indagine conoscitiva promossa dall’associazione Differenza Donna in collaborazione con la FISH, dai cui primi risultati emerge che: il 31% delle donne con disabilità ha dichiarato di avere subito una qualche forma di violenza e circa il 10% ha affermato di essere stata vittima di stupro nella propria vita. Secondo i ricercatori, tuttavia, tali risultati sono solo apparenti: considerando, infatti, le risposte alle domande inerenti le singole forme di violenza (l’isolamento, la segregazione, la violenza fisica e psicologica, le molestie sessuali, lo stupro, la privazione del denaro, …), si registra che le hanno subite il 66% delle donne intervistate. In particolare l’associazione Differenza Donna evidenzia come: “accade frequentemente che le donne con disabilità dipendano da intermediari che non sono preparati a riconoscere la violenza, fino ad avere anche terribili casi nei quali sono essi stessi a esercitare la violenza, lasciando la donna senza una via d’uscita”. A fronte di tale situazione l’associazione ha recentemente istituito il primo Osservatorio sulla violenza contro le donne con disabilità in Italia, con l’obiettivo sia di raccogliere e restituire dati sul fenomeno della violenza di genere sulle donne con disabilità, sia di promuovere un cambiamento culturale che porti a un nuovo modo di pensare alle politiche sociali. In tale prospettiva è opportuno richiamare l’importanza del recepimento e della diffusione del “Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea”.
“Non si affitta ai disabili”, così una giovane ragazza con disabilità si è vista negare quest’autunno la casa a Omegna, in Piemonte. “Colpevole di autismo”, questa la triste vicenda segnalata dall’ANGSA Lazio che ha coinvolto uno studente con autismo, denunciato “per aggressione” dal proprio docente verso la fine dell’anno scolastico. “Fai schifo, vattene a casa … ti votano perché sei storpia”, questi gli insulti che sono stati rivolti sui social a Chiara Bordi, prima donna che ha partecipato a Miss Italia con una protesi.
Episodi esemplificativi di un clima culturale caratterizzato da un linguaggio dell’odio e del pregiudizio sempre più diffuso e pervasivo, e che, purtroppo, si riscontra sempre più spesso anche in affermazioni e dichiarazioni di personaggi pubblici che hanno ruoli ed influenza particolarmente rilevanti, come testimoniato da due recenti episodi.
Il primo è relativo all’intervento di Beppe Grillo alla convention del Movimento 5 stelle ad ottobre, in cui affermava: "L’autismo non lo riconosci, per esempio è la sindrome di Asperger … che è quella sindrome di quelli che parlano in quel modo e non capiscono che l’altro non sta capendo. E vanno avanti e fanno magari esempi che non c’entrano un cazzo con quello che sta dicendo … hanno quel tono sempre uguale. C’è pieno di psicopatici…”. Lorenzo, un giovane con la sindrome di Asperger, pochi giorni dopo pubblicava un video in cui gli rispondeva in questi termini: “Caro Beppe, a proposito di toni sempre uguali, … gli attacchi a chi come me fa parte di una minoranza sono sempre gli stessi. Io sono Asperger e penso che ci sia un’Italia diversa …”. Concludeva, poi, il suo intervento esponendo un cartello con la scritta #NOABILISMO, cui faceva seguito la seguente definizione: “L'abilismo è la discriminazione nei confronti di persone disabili e, più in generale, il presupporre che tutte le persone abbiano un corpo abile. Essa può colpire sia disabili fisici che mentali, e può essere attuata sia attaccando fisicamente o verbalmente i disabili. Abilista è stato per esempio il regime nazista, che perseguitò tra gli altri anche i disabili perché inutili alla razza ariana”(5).
Il secondo episodio riguarda le dichiarazioni del Presidente della regione Sicilia Nello Musumeci che, nel mese di Aprile, parlando in aula sulle coperture finanziarie dedicate all’assistenza, affermava: “Se non ci fossero stati i disabili gravissimi, molte famiglie non avrebbero dovuto subire un colpo in fronte e noi avremmo potuto disporre di qualche decina di milioni in più per collocarli in settori attualmente carenti di disponibilità finanziaria”. Parole riprese dal comitato “#SiamohandicappatiNocretini”, che rispondeva così: “Si vergogni e faccia pubblica ammenda non per le parole, ma per il senso di quello che vogliono trasmettere, cioè odio sociale nei nostri confronti …”.
Concetti ribaditi anche in un comunicato stampa della FISH (pubblicato a seguito della diffusione di alcune dichiarazioni, poi ritrattate, che in passato aveva fatto il portavoce del Presidente del Consiglio), in cui si afferma che “… il linguaggio tradisce un pregiudizio, se non addirittura un rigetto verso la diversità, verso le differenze, verso le minoranze e i più deboli, atteggiamenti che poi non possono che concretizzarsi in gesti, azioni, omissioni profondamente contrari ad ogni sforzo inclusivo se non allo stesso diritto di cittadinanza e ai diritti umani”.
(1) - G. Merlo, C. Tarantino (a cura di), La segregazione delle persone con disabilità. I manicomi nascosti in Italia, Maggioli Editore, 2018.
(2) - CENSIS, La gestione della cronicità: il ruolo strategico del caregiver, 21/11/2017
(3) - Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea, http://www.informareunh.it/wp-content/uploads/3215/2ManifestoDonneDisabiliUE-ITA.pdf
(4) - Attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Rapporto delle associazioni di donne, 2018, http://www.informareunh.it/wp-content/uploads/GREVIO2018-RapportoOmbraITA.pdf
(5) - Vedi anche “Si chiama abilismo, si legge diritti civili mancati, ANSA, 18/11/2018, http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2018/11/08/si-chiama-abilismo-si-legge-diritti-civili-mancati_d75138fa-c32e-4ac1-becb-7a307b356d9f.html