Dopo nove anni arrivano le prime parole, nero su bianco, di un testimone oculare su quello che subì Stefano Cucchi mentre era nelle mani dello Stato: un pestaggio. Il ricordo di quegli attimi di violenza arriva da Francesco Tedesco, uno dei tre militari imputati al processo, che lo scorso luglio di fronte al pm accusa gli altri due colleghi accusati come lui di omicidio preterintenzionale, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro.
Luigi Manconiin una lettera su Internazionale di cui riportiamo integralmente il testo ricorda dichiarazioni e interventi di alcuni vertici di Polizia e Carabinieri riguardanti gli abusi delle forze dell'ordine che descrivono un tortuoso e difficile percorso per la stigmatizzazione di comportamenti violenti e criminali che si verifciano all'interno dei corpi dello stato.
Gentile direttore, il 13 ottobre si aprirà il cosiddetto Cucchi bis. Ovvero il secondo procedimento per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto nell’ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini della capitale. Per i tre carabinieri che lo arrestarono, l’accusa contestata dalla procura è quella di omicidio preterintenzionale, mentre altri due appartenenti all’arma dovranno rispondere dei reati di calunnia e di falso. Il primo procedimento si era concluso con un nulla di fatto. Sul banco degli imputati erano stati chiamati nove dipendenti dell’ospedale romano, accusati a vario titolo di favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falso ideologico; tre agenti di polizia penitenziaria, per i reati di lesioni e abuso di autorità; e un funzionario del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per falso ideologico, abuso d’ufficio e favoreggiamento personale.
Tutti gli imputati sono stati assolti in appello: i medici e gli agenti di polizia penitenziaria per insufficienza di prove che il fatto sussista, gli infermieri e il funzionario del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) perché il fatto non sussiste. Dopodiché, le indagini sono ripartite su basi completamente nuove e diverse, concentrandosi sulle responsabilità di appartenenti all’arma dei carabinieri. E, a distanza di otto anni da quella tragedia, il materiale probatorio già acquisito sembra autorizzare un qualche ottimismo. Lo stesso sentimento che avvertimmo quando, nel febbraio del 2017, il comandante generale dell’arma dei carabinieri Tullio Del Sette volle incontrare Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, la direttrice di A buon diritto Valentina Calderone e chi scrive.
In quell’occasione, Del Sette disse di valutare come estremamente grave il fatto che alcuni carabinieri avessero potuto “perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’avessero poi riferito e che alcuni altri avessero potuto sapere senza segnalarlo”. Il comandante, parlando di Stefano Cucchi, affermò poi di non essere indifferente a “quel suo corpo sottile, a quel volto tumefatto, mostratici con i segni profondi delle vicissitudini e delle sofferenze patite”. È a partire da questo episodio che ho pensato di comporre una sorta di catalogo di dichiarazioni e prese di posizione, quasi mai lineari e tanto meno sistematiche, eppure così sorprendenti da incidere su quella mentalità comune che costituisce la subcultura poliziottesca (come la critica cinematografica più eclettica definì un genere che vide protagonisti, negli anni settanta, gli agenti diventati “giustizieri della notte”).
Questa esile rassegna può cominciare con una data: quella del 2 agosto 1985, quando l’allora ministro dell’interno, Oscar Luigi Scalfaro, condannò il fatto che un cittadino “entrato vivo in una stanza di polizia, potesse uscirne morto”. Si riferiva alla vicenda del venticinquenne Salvatore Marino, sospettato di aver avuto un ruolo nell’assassinio del commissario Giuseppe Montana e sottoposto a torture negli uffici della squadra mobile di Palermo. Ci vollero oltre vent’anni perché un altro ministro dell’interno seguisse l’esempio di Scalfaro.
Nel settembre del 2006, a Ferrara, Giuliano Amato volle incontrare i genitori di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso un anno prima da quattro agenti in divisa, assicurando il proprio sostegno per la ricerca della verità e auspicando che la comunità cittadina potesse comprendere cosa accadde realmente quella notte. Cinque anni più tardi, nella prefettura della stessa città, il capo della polizia Antonio Manganelli – in un incontro che, oltre ai genitori di Federico, coinvolse anche me – affermò di assumersi la piena responsabilità “di questa vicenda tristissima che costituisce un insegnamento per l’interno e per l’esterno della polizia”.
Nel luglio 2012, poi, dopo la sentenza della cassazione, lo stesso Manganelli fece recapitare alla famiglia Aldrovandi una lettera contenente parole importanti: “La sentenza penale è arrivata dopo sette lunghi anni, ed io sento il forte bisogno di rinnovare le mie più sincere scuse per l’immane tragedia che ha irrimediabilmente distrutto la vostra vita”. E ancora Manganelli, a seguito della condanna definitiva per quanto avvenne all’interno della scuola Diaz durante il G8 del 2001, si rammaricò pubblicamente a nome dell’istituzione di cui era il massimo responsabile. Certamente quelli di Manganelli non vanno interpretati come atti occasionali o estemporanei: già nel 2007 – nel corso di una trasmissione televisiva alla quale partecipavo – pronunciò parole inequivocabili a proposito della morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente della stradale: “Pietre o no, non cambiano le colpe della polizia. Sandri è stato vittima di una leggerezza imperdonabile”.
Nel 2014, si è verificato un altro episodio di rilevante interesse: riuniti in una saletta del Viminale, si trovavano Alessandro Pansa, in quel momento al vertice della polizia di stato, il ministro dell’interno Angelino Alfano, la madre di Federico Aldrovandi e chi scrive. Ministro e capo della polizia rinnovarono le scuse istituzionali per quanto accaduto, ma dichiararono di poter fare poco o nulla per rivedere le misure disciplinari così blande a carico degli agenti condannati. Un segno di apertura pur contraddittoria da non trascurare. Già qualche giorno prima, il 14 aprile 2014, si era verificata una vicenda acutamente rivelatrice di quella contraddittorietà. Pansa aveva pubblicamente definito un “cretino da identificare” quel poliziotto filmato mentre calpestava una ragazza stesa a terra, durante una manifestazione a Roma. Alle dichiarazioni del capo della polizia avevano fatto subito eco quelle del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che si esprimeva in difesa dell’agente: “Non è un cretino. Forse lo ha fatto per dare una mano ai suoi colleghi. Per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi è chiamato a tutelare. Per 1.200 euro al mese”.
Nel settembre 2015, poi, in occasione del decimo anniversario della morte di Federico Aldrovandi, fu organizzato un dibattito pubblico a Ferrara al quale presi parte insieme a Daniele Tissone, segretario del sindacato lavoratori di polizia della Cgil, e Lorena La Spina, segretaria nazionale dell’Associazione funzionari di polizia. La presenza dei due sindacalisti a una commemorazione come quella è un evento significativo. La Spina, proprio in quella circostanza, riconobbe che i quattro poliziotti – giudicati poi responsabili del decesso del giovane ferrarese – avrebbero potuto e dovuto operare in modo differente: “Il nostro lavoro ci espone a compiere scelte rapide, ma quegli agenti hanno sbagliato”. Affermazioni importanti, se si considera il silenzio che da sempre avvolge le storie che evidenziano un operato scorretto delle forze di polizia; e, a proposito del quale operato, le rappresentanze sindacali si limitano, nel migliore dei casi, a dichiarare “rispetto per le sentenze della magistratura”(salvo poi contestarle, più o meno apertamente, un attimo dopo).
Le parole e i fatti qui richiamati hanno costituito un tortuoso itinerario, lungo numerose tappe e molti anni, che avrebbe portato a quelle che, a tutt’oggi, risultano essere le affermazioni più impegnative mai pronunciate dalle massime autorità delle forze di polizia. A parlare è stato il prefetto Franco Gabrielli, in un’intervista rilasciata a Carlo Bonini di la Repubblica. Il capo della polizia ha affermato che “a Bolzaneto ci fu tortura”, descrivendo i giorni genovesi del 2001 come quelli in cui “un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite”. Gabrielli ha aggiunto, poi, che la gestione dell’ordine pubblico a Genova “fu semplicemente una catastrofe” e che, oggi, le forze dell’ordine non debbono aver timore “degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell’opinione pubblica o di quello della magistratura”. Una magistratura – ha sottolineato Gabrielli – a cui non si può contestare di aver perseguitato per motivi ideologici la polizia: “Sui fatti di Genova i giudici hanno lavorato con imparzialità”. Una ricostruzione, questa, che ha incontrato il favore di alcune organizzazioni sindacali della polizia e l’aperto dissenso di altre, come il Sap e il Coisp.
Infine, lo scorso 24 agosto, a Roma, la polizia ha sgomberato uno stabile di via Curtatone, vicino a piazza Indipendenza. Lì, da anni, vivevano circa 800 profughi, in prevalenza di nazionalità eritrea e nella stragrande maggioranza titolari dello status di rifugiato o beneficiari della protezione internazionale. Durante una delle cariche, un giornalista ha registrato le parole pronunciate da un funzionario di polizia: “Se tirano qualcosa, spaccategli un braccio”. Anche su questo episodio, Franco Gabrielli ha commentato: “È una frase, questa, che un funzionario con un ruolo di comando non dovrebbe mai pronunciare e neppure pensare. Siamo i legittimi detentori della forza e la nostra credibilità risiede nell’uso proporzionale e intelligente di essa, come la nostra coscienza e la legge ci impongono”.
Qual è il senso di questo lungo excursus? Innanzitutto, vuole essere una prima risposta a un’idea molto diffusa, ma in genere fallace, che considera gli apparati statuali come perennemente irrigiditi e immobili. Il che non è assolutamente vero, anche se – come è fin troppo evidente – le dichiarazioni, pur se provenienti dai massimi vertici, non vanno prese come la testimonianza di un cambiamento reale già avvenuto o in corso. Niente affatto. D’altra parte, non è nemmeno vero che debba attribuirsi a ipocrisia o a mera formalità il riconoscimento di errori e l’ammissione di colpe. Sì, può esserci anche questo, ma quelle parole di autocritica, e specie alcune di quelle, non sono affatto indolori, non scorrono via come l’acqua, non lasciano tutto come prima. Fossero pure solo parole, il loro peso è comunque significativo. Possono essere usate, sono ordinariamente usate, per impiccarvi chi le ha pronunciate oppure per ricorrervi come sostegno e legittimazione delle proprie critiche.
In altre parole, le affermazioni di Gabrielli verranno certamente utilizzate contro Gabrielli dai suoi avversari interni ed esterni: ma sono anche a disposizione di chi, in virtù di quelle stesse affermazioni, avrà maggiore agio e più spazio per contestare ciò che Gabrielli ha così autorevolmente contestato. Dopo di che, è chiaro come le parole dell’attuale capo della polizia (e quelle dei predecessori) non rappresentano la riforma delle forze di polizia né la sua anticipazione. E, tuttavia, non va sottovalutato l’effetto “ambientale” che possono contribuire a creare. Insomma, sono fattori agevolanti un percorso che, indubbiamente, resta ancora tutto, o quasi, da fare. Di più: molte di quelle parole, appaiono già ora contraddittorie e c’è un esempio che sta lì a dimostrarlo.
L’attuale capo della polizia dice che non si devono temere “i codici identificativi nei servizi di ordine pubblico” e sembra addirittura auspicarli. Ma chiunque abbia seguito con un po’ di attenzione tale questione, sa bene come non uno spiraglio per accoglierli e introdurli si sia aperto in questi anni. E sa bene come la legge sulla tortura abbia subìto pesanti condizionamenti e limitazioni, proprio provenienti dal Viminale. Dunque, quanto finora scritto, non intende né accentuare il pessimismo né introdurre toni ottimistici in una materia che richiede grande lucidità e nervi saldi. Purtroppo, per una parte notevole degli operatori di polizia impegnati in attività di controllo del territorio o in servizio di ordine pubblico, la tendenza a vedere un nemico, e non un titolare di diritti e di garanzie, in coloro che non rientrano negli stili di vita dominanti, resta tutt’ora molto forte.
Questa lettera è stata scritta con la collaborazione di Valentina Moro.