Raido Ciambella di Mattia Feltri
La Stampa, 30 aprile 2019
Una democrazia adulta finanzia la stampa, come finanzia l'istruzione e la sanità, perché la ritiene indispensabile a sé stessa. Non significa colmare i disavanzi di qualsiasi testata, soprattutto se non ce lo si può permettere, ma significa contribuire nel limite del possibile e del ragionevole alla sopravvivenza di un'informazione plurale.
Poi ci sono momenti in cui questa riflessione, più che altro un'ovvietà, diventa impopolare o addirittura scandalosa, e del resto la nostra democrazia vive tempi di disinteresse fino all'antipatia peri capisaldi dello Stato liberale: il ruolo del potere legislativo, la separazione dei poteri, la presunzione d'innocenza, figuriamoci se ci si strapperà i capelli per l'azzeramento dei fondi all'editoria.
Tutti i principali quotidiani non ricevono sovvenzioni da anni e vanno avanti, zoppicando perla crisi economica, come qualsiasi azienda, e per la formidabile concorrenza del nuovo mondo interconnesso, ma vanno avanti. La premessa, un po' barbosa, è necessaria per parlare dell'eccezionalità di Radio radicale, a cui è stata dimezzata la convenzione (da dieci milioni di euro a cinque) in cambio della messa in onda delle sedute parlamentari, ragione per cui rischia di chiudere fra qualche settimana.
E cioè è anche vero, come sostiene il governo, che giornali, radio e tv debbono vedersela col mercato, e del resto se ne fondano oggi confidando nel mercato e ne falliscono oggi per la legge del mercato esattamente quanto prima, quando di denaro ce n'era di più, e non soltanto denaro pubblico. Applicare la regola a Radio radicale non ha però nessun senso. Radio radicale non ha nulla a che vedere col mercato, se ne infischia del mercato, è costituzionalmente estranea all'andamento del mercato ed è preziosa proprio perché è fuori dal mercato.
Niente è così invendibile sul mercato quanto l'intero palinsesto di Radio radicale: dibattiti d'aula, voci dal carcere, processi penali, convention di partito, e zero pubblicità. Dipendesse dal mercato non si chiuderebbe solo la radio, si chiuderebbero i partiti, i tribunali, le carceri (con la gente dentro), si chiuderebbe il Parlamento (è già un'ipotesi della democrazia digitale). Se fosse per il mercato, non andrebbe mai in onda il dibattito di due ore e quaranta sulla nuova edizione critica degli scritti di Gaetano Salvemini, ma la hit parade delle canzoni più vendute.
Se sentiamo qualcosa in radio su Benedetto Croce o su Nicola Chiaromonte è perché c'è Radio radicale, quanto al mercato li butterebbe in un tombino. Nella logica del mercato, del resto, ci sarebbero soltanto scuole e cliniche private, metà dei musei farebbe bancarotta per assenza di domanda, tre quarti dei teatri dell'opera sarebbero convertiti in discoteche.
Nel gusto del mercato potremmo prendere il poderoso archivio di Radio radicale - e sebbene non importi a nessuno, o a pochi, è comunque un patrimonio politico, civile e culturale della nostra Repubblica - e regalarlo al canale tremila della Rai, di modo che ci faccia la polvere; ecco, davvero una bella proposta quella di trasferire le mansioni in convenzione da Radio radicale alla Rai, cioè a un mastodonte succhia-soldi da due miliardi di euro di canone all'anno che le metterà nelle mani dell'ultimo direttore a disposizione dell'ultimo potente.
Il mercato è una gran bella cosa: se la mia ciambella è più buona della tua, la mia fabbrica di ciambelle andrà bene e la tua chiuderà. Poi c'è lo Stato, che dovrebbe essere in grado di distinguere una ciambella da una radio concentrata su un servizio unico e inestimabile, puntato dritto al cuore, alla memoria e alle basi delle nostre istituzioni, per lo sperpero di venti centesimi all'anno per ogni italiano.