Di Alessandro Capriccioli dal Manifesto del 26 aprile
Siamo di fronte allo sgretolamento di un "piano rom" che fin dai suoi primi passi ha dimostrato tutta la sua inefficacia. Il compito della politica dovrebbe essere, ove possibile, quello di risolvere i problemi. E certamente non quello di crearli. Mentre sarebbe un'esagerazione sostenere che in Italia, e in particolare a Roma, la cosiddetta "questione rom" sia stata interamente fabbricata dalla politica, è senz'altro corretto affermare che le politiche di segregazione adottate a partire dagli anni 80 abbiano giocato un ruolo determinante nell'aggravarlo in modo pesantissimo.
Laddove sarebbero stati necessari, come più volte indicato in primo luogo dall'Unione europea, percorsi di inclusione sociale, abitativa, scolastica e lavorativa, si è scelta invece, in modo pressoché sistematico, la strada dell'esclusione, dell'isolamento e della segregazione operata su base etnica: aggravando via via la situazione e aumentando le tensioni sul territorio, salvo poi, in non pochi casi, utilizzare per aumentare il proprio consenso, gli stessi problemi che si era contribuito a far precipitare.
La vicenda del Camping River, a Roma, sulla via Tiberina, non è che l'ultimo capitolo di questa lunghissima saga al contrario. Dall'annuncio di voler chiudere il campo un anno fa, abbiamo assistito a un susseguirsi di azioni da parte del Comune, rivelatesi poi inefficaci: l'offerta di un sostegno all'affitto per la stipula di contratti che le famiglie rom, abbandonate a se stesse, non sarebbero mai riuscite a ottenere (cosa che si è puntualmente verificata); poi la proposta di una non meglio identificata accoglienza mediante separazione dei nuclei familiari; il rimpatrio volontario assistito; infine, verificato l'inevitabile fallimento di queste misure, l'attribuzione della responsabilità alla mancata volontà degli ospiti fino ad arrivare nelle ultime settimane alla distruzione fisica dei moduli abitativi di proprietà dello stesso Comune e allo sgombero dei giorni scorsi.
Sgombero che, come già in passato, è stata la Corte europea dei diritti umani a sospendere dopo il ricorso di alcune famiglie, richiamando il principio che nessun intervento di questo tipo può essere attuato se prima a donne, uomini e minori non sia stata assicurata un'alternativa valida. Siamo di fronte al fallimento di un "piano rom" che fin dai suoi primi passi ha dimostrato tutta la sua inefficacia. Perché la questione è complessa e c'è bisogno di tempo, di interventi programmati, di conoscenza delle singole situazioni: è evidente, ad esempio, come le famiglie vadano affiancate nella ricerca di una casa in affitto e non basti offrire dei soldi.
Al netto della propaganda e dei proclami, che pure in queste ore non si sono fatti attendere (Salvini che definisce "buonista" la pronuncia della Cedu e incontra la sindaca Raggi, a sua volta ormai quasi del tutto "salvinizzata" che chiama in soccorso l'esercito), il punto rimane sempre lo stesso: cosa dovrebbe fare la politica per invertire la tendenza e iniziare a risolvere i problemi anziché aggravarli? Conosciamo la risposta. E la conosciamo da anni, perché è quella indicata più volte dalla Ue e dalla stessa "Strategia nazionale di inclusione": un'indagine conoscitiva (cosa molto diversa dai "censimenti" effettuati dalle forze dell'ordine e finalizzati a "smascherare" i supposti ricchi che vivono nei campi) che possa determinare, nucleo familiare per nucleo familiare, competenze, necessità, criticità e aspirazioni; poi, sulla base dei dati raccolti, percorsi di inclusione personalizzati da adottare con azioni precise e tempi certi, contando sui finanziamenti che l'Ue fornisce a questo scopo.
È il metodo che ha condotto altri paesi europei, prima tra tutti la Spagna, a risolvere la questione nel giro di un paio di decenni, nel rispetto dei diritti umani e senza ricorrere all'impiego di "ruspe", più o meno metaforiche: lo stesso metodo che, probabilmente, non si intende adottare perché non si è capaci di investire nel futuro, di mettere in campo una visione complessiva e di perseguirla. Forse perché è più comodo continuare a lucrare consenso sulla pelle di qualche migliaia di poveri.