di Ilaria Valenzi
Era attesa da tempo la pronuncia del Consiglio di Stato sulla questione delle benedizioni pasquali ed è giunta con singolare tempestività in un periodo dell’anno tutt’altro che neutro, almeno dal punto di vista delle abitudini liturgiche nazionali.
La vicenda nasce nel 2015, quando il Consiglio del’Istituto comprensivo 20 di Bologna aveva autorizzato la benedizione pasquale di strutture e comunità di alcune scuole primarie, in orario extrascolastico, provocando la reazione di un gruppo di genitori e insegnanti, che impugnavano il provvedimento.
Nell’accogliere il ricorso, con decisione n. 166 del 2016 il Tribunale Regionale dell’Emilia Romagna ribadiva che il principio di laicità e non confessionalità dello Stato non comporta indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni. Nessuna esclusione del credo confessionale dalle istituzioni scolastiche, pertanto, bensì una formazione limitata all’aspetto culturale dei fenomeni religiosi, se e in quanto portatori di valori non in contrasto con i principi dell’ordinamento giuridico. Ben diverso è il caso delle benedizioni pasquali, che sono celebrazione di riti religiosi e che riguardano scelte private di natura incomprimibile, come tali estranee all’ambito della scuola pubblica, tenuta di per sé ad evitare discriminazioni.
A distanza di un anno, con sentenza n. 1388 del 27 marzo 2017, il Consiglio di Stato ribalta la decisione del Tar e afferma principi destinati a far discutere. Rileva il Collegio che la celebrazione del rito religioso ha senso, per chi intenda praticarlo, solo se celebrato in un luogo determinato (e alla presenza delle persone che lo frequentano) e ciò giustifica la richiesta della sua celebrazione anche nelle scuole, seppur in orario extrascolastico. Nessuna lesione può pertanto essere invocata da chi, non condividendone il significato, non prenda parte alla celebrazione. Le benedizioni pasquali devono quindi essere considerate attività “parascolastiche” e, come tali, non possono subire un trattamento deteriore. Il principio di non discriminazione di cui all’art. 20 Cost. non consente infatti che si attribuisca alla natura religiosa di un’attività una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile in quanto espressione di fede.
Sul presupposto della mancanza di un espresso divieto di autorizzare attività di tipo religioso, la pronuncia affronta il nodo cruciale della titolarità del diritto alla programmazione delle attività parascolastiche. Se le competenze degli organi scolastici sono estese anche alla tipologia e alla natura di tali ultime attività, con possibilità di programmazione e autorizzazione in piena libertà e autonomia, lo si deve a quella che il Consiglio di Stato definisce una “prassi oggi invalsa”, e che nella realtà non è altro che la Circolare del Ministero dell’Istruzione n. 133377/92, che ammette la possibilità che l’organo collegiale dell’istituto scolastico autorizzi eventuali atti di culto nell’ambito di iniziative culturali ed extrascolastiche e la cui legittimità è stata confermata nel 2009 da un parere dell’Avvocatura generale dello Stato.
Il caso di Bologna riporta l’attenzione sul precario stato del principio di laicità nella scuola pubblica, delegandone la tutela ad una disciplina approssimativa e di ordine interno, che mal si coordina con quel poco di legislazione che in materia è stata prodotta. Il Consiglio di Stato sembra infatti pienamente confermare la bontà di una prassi confusionaria, che sovrappone legittime iniziative culturali sul fatto religioso e celebrazioni di atti di culto, senza che il Testo Unico in materia di Istruzione possa essere di grande aiuto a fare chiarezza sul punto. Il diritto di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica è infatti garantito mediante norme precauzionali che, se tentano di preservare la neutralità degli spazi, non escludono tuttavia che “ogni eventuale pratica religiosa” (art. 311) sia svolta negli istituti.
Via libera pertanto alle delibere dei Consigli di istituto su attività cultuali e rituali, che con tale pronuncia assurgono ad iniziative che “riconoscono e valorizzano le diversità” tra studenti, questi ultimi “individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente integrazione”, con buona pace per i percorsi di formazione e integrazione sul fatto religioso, rigorosamente laici e non confessionali.
Genitori e insegnanti annunciano ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il cui utilizzo del margine di apprezzamento dell’Italia in applicazione del principio di libertà religiosa è, purtroppo, noto.