Questo contributo è stato scritto da Alessandro Leogrande, acuto giornalista, scrittore finissimo, intellettuale e grande amico, che ci ha lasciati il 26 novembre 2017, per il nostro primo Rapporto Sullo Stato dei Diritti in Italia, nell'ottobre 2014.
La vicenda Ilva, esplosa come caso mediatico-politico e giudiziario nell'estate 2012 e ancora lontana da una sua soluzione, rappresenta un caso di forte interesse nella verifica dello stato dei diritti umani in Italia. La storia di lungo periodo della implementazione, gestione e sviluppo di uno degli stabilimenti siderurci più grandi e importanti d’Europa, oltre a essere un caso importantissimo e cruciale relativo ai processi industriali e al nostro modello di sviluppo, è anche la storia di grandi e costanti distorsioni e deroghe dalla corretta considerazione delle priorità derivanti dal rispetto di fondamentali diritti umani: non solo quelli inerenti alle sfere del diritto alla salute e del diritto al lavoro. La vicenda Ilva è la dimostrazione evidente e drammatica degli effetti devastanti che si determinano nell’affermarsi di un sistema di rapporti sociali ed economici che considera inessenziali e superflui, se non addirittura controproducenti, le regole e le pratiche di rispetto e salvaguardia di diritti fondamentali dei cittadini e delle generazioni future.
La fabbrica che uccide Nell'ottobre 2012, vengono presentati i risultati dello studio “Sentieri” sulla mortalità e le malattie contratte dalla popolazione di Taranto e del limitrofo comune di Statte per l’esposizione all’inquinamento industriale. I dati relativi al periodo 2003-2009 sono impressionanti: +14% di mortalità per gli uomini, e +8% per le donne, per tutte le cause di malattia rispetto alla media in Puglia. Per gli uomini, in particolare: +14% per tutti i tumori, +14% per le malattie circolatorie, +17% per quelle respiratorie, +33% per i tumori polmonari, +419% per i mesoteliomi pleurici. Per le donne: +13% per tutti i tumori, +4% per le malattie circolatorie, +30% per i tumori polmonari, +211% per il mesotelioma pleurico. Per i bambini si registra un incremento del 20% della mortalità nel primo anno di vita rispetto alla media pugliese, che diventa 30-50% per la contrazione di malattie di origine perinatale che si manifestano oltre il primo anno di vita. Nel rapporto “Sentieri” si legge ancora: “Lo stabilimento siderurgico – in particolare gli impianti altoforno, cokeria e agglomerazione – è il maggior emettitore nell’area per oltre il 99% del totale, ed è quindi il potenziale responsabile degli effetti correlabili al benzopirene”.
La posta in gioco La vera linea di frattura che taglia in due Taranto non è tanto la scelta tra salute e lavoro, come raccontano da oltre un anno i mass media. È una interpretazione che ha il suo fascino, apparentemente chiara nella sua lampante dicotomia. Ma è troppo semplicistico metterla così. Come se a Taranto (in Italia, in Europa) ci fossero operai-ultimi-dei-mohicani disposti a prendersi qualsiasi tipo di sarcoma pur di continuare a colare ghisa. E come se – sul fronte opposto – ci fossero fanatici anti-industrialisti che non tengono in nessun conto i costi sociali di una possibile chiusura dell’Ilva, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, tuttora il primo insediamento industriale del paese, più grande anche di ciò che resta di Mirafiori. Certo, posizioni estremiste in un campo o nell’altro ce ne sono. Tuttavia la città è segnata da un’altra faglia a geometria variabile che corre intorno a una domanda cruciale: è possibile o meno, in tali condizioni, riformare questi impianti? È questo, in realtà, il dilemma su cui ci si divide in varie posizioni (non necessariamente due). Ed è un dilemma su cui davvero si deve riflettere e agire. Quella dell’Ilva non è semplicemente una vertenza “ambientale”. Non è solo un caso giudiziario. È piuttosto un groviglio economico, sociale, politico che affonda le sue radici nell’industrializzazione novecentesca e nel suo fallimento, e che – perpetrandosi oggi – diventa a suo volta banco di prova per scelte future: quali idee di democrazia, di partecipazione ai processi decisionali, di industria possano convivere in questo lembo d’Europa nel XXI secolo. Cosa produrre, quanto produrre, come produrlo… e soprattutto chi sono i soggetti che possono e devono argomentare tali scelte.
La vera domanda Ma per arrivare a discutere tutto ciò, bisogna riflettere – ancora una volta – sulla domanda da cui tutto discende: quella fabbrica è riformabile? Finora ho sempre pensato di sì, per almeno due motivi. Il primo è che dalla tradizione del movimento operaio è recuperabile l’idea secondo cui il lavoro che non ci piace non va rifiutato luddisticamente, bensì trasformato (e quindi liberato), modificando i rapporti e i luoghi di lavoro. Il male di Taranto è stato in gran parte determinato dall’accettazione acritica non dell’acciaio, bensì di quel modo di produrlo, specie nei quindici anni di gestione Riva. In Germania, in Austria, in Corea del Sud lo si fa in maniera molto diversa, ad esempio… Il secondo è che chiudendo oggi l’Ilva, lo scenario più probabile che ne verrebbe – al di là della crisi occupazionale che si aprirebbe come una voragine – non è la bonifica, ma lo spettro di Bagnoli: una vasta landa post-industriale, senza bonifica, senza lavoro, senza alternativa. E allora, poiché lo status quo è inaccettabile, la domanda non può essere aggirata: è possibile trasformare l’Ilva? Verranno realizzati i necessari ammodernamenti degli impianti? Si copriranno i parchi minerari e i nastri trasportatori? Si rifaranno le batterie della cokeria, gli altiforni, le acciaierie? Si compirà davvero (come auspicato dai decreti Ilva divenuti legge, e dal piano industrial-ambientale che va definendosi poco alla volta) questo percorso?
È questo il vero banco di prova. Se il cambiamento si dimostrerà impossibile, la città sarà nuovamente dilaniata dalle sue contrapposizioni, e la tesi della irriformabilità della fabbrica si invererà, risucchiando ogni cosa in un enorme gorgo. Non è detto che tale scenario sia irrealistico. Anzi: la crisi economica e le incertezze del mercato dell’acciaio, l’assenza di classi dirigenti locali e nazionali che possano dirsi tali, lo strano limbo prodotto dallo stallo politico sono tutti potenti alleati di un possibile scenario catastrofico. Al di qua della domanda principe (è possibile modificare la fabbrica?) continuano poi a vivere la città e i suoi operai. Paradossalmente, sono proprio loro – cioè la più grande concentrazione operaia in un’Italia sempre più deindustrializzata – i meno raccontati di tutti. Tale rimozione spiega molto della nostra incapacità di guardarci allo specchio. Non solo a Taranto, ma in tutta Italia: la rimozione della questione operaia è un enorme processo che attraversa l’ultimo ventennio italiano – tanto quanto la parabola del berlusconismo.
La deroga non riguarda esclusivamente il diritto alla salute Eppure, osservando proprio il laboratorio-Ilva, si possono capire molte cose. L’inquinamento devastante è stato innanzitutto il prodotto di devastanti relazioni di lavoro. Chi come me ha iniziato a raccontare i nuovi operai assunti dal colosso privatizzato alla fine degli anni novanta, mentre parallelamente nella famigerata Palazzina Laf si palesava lo scandalo dell’istituzione di un reparto-confino per i più recalcitranti tra gli “anziani” (e quindi: i contratti di formazione lavoro, l’impatto con gli impianti, l’eccesso di straordinari, la virulenta desindacalizzazione, gli infortuni costanti, il numero incredibile di morti per incidenti ancor prima che per tumore…) si è trovato a descrivere una fabbrica sull’orlo del caos, tra fumi e mancate manutenzioni, abitata da una generazione profondamente diversa da quelle precedenti, irreggimentata in una gabbia disciplinare ultra-moderna.
Chi sono i giovani operai dell’Ilva (età media trent’anni, assunti quando ne avevano venti o poco più)? Cosa pensano della politica o del sindacato? Come vivono? Dove vivono: in città o nei paesi della provincia? Cosa sognano? Di cosa si ammalano quando si ammalano? Perché si incazzano quando si incazzano? Perché sovente stanno zitti? Perché in genere pensano che questo lavoro sia meglio di altri? Ogni volta che non ci si è posti queste domande, l’enorme campana di vetro che avvolge l’intera questione Ilva ha irrobustito le sue pareti. E questo non è un problema unicamente politico-sindacale. In un noto reportage scritto nel 1979, Walter Tobagi evocò la categoria del “metalmezzadro” per spiegare la stramba classe operaia che era sorta nell’Italsider di Taranto: non ancora pienamente staccati dal passato contadino, quegli operai erano stati inseriti in un ciclo produttivo calato dall’alto. Si erano così prodotte le condizioni per l’alienazione futura. Ciononostante quella fabbrica di Stato, tra mille sperperi, aveva prodotto delle maestranze, una cultura del lavoro e dei diritti a esso connessi. Aveva prodotto anche un tasso di sindacalizzazione molto elevato: intorno al 90% dei dipendenti.
Oggi appena il 40% degli operai ha una tessera sindacale. L’Ilva è in gran parte una fabbrica non rappresentata, non solo per errori e ritardi dei sindacati, ma soprattutto perché così ha voluto la dirigenza Riva: favorendo massicciamente assunzioni in cambio della non-iscrizione, e quindi un costruendo un rapporto diretto tra i vertici e il singolo dipendente. La stessa categoria di “metalmezzadro” oggi andrebbe rivista, dal momento che in uno scenario mutato sono stati fatti molti passi indietro.
A costo di apparire retrò, vorrei ribadire ancora una volta che l’inquinamento è la manifestazione esterna dei rapporti e dei modi di lavoro interni alla fabbrica. E che per abbattere l’inquinamento, vanno anche abbattuti quei modi. Sarà possibile farlo?
Stati di eccezione che vengono da lontano Ho scoperto per caso cosa scriveva nel giugno del 1965 Alessandro Leccese, ufficiale sanitario negli anni in cui l’Italsider venne costruito sulle rive dello Jonio. È stato il presidente dell'Ordine dei medici di Taranto, Mimmo Nume, a darmi alcune pagine del suo diario (scritto in totale solitudine, in un tempo remoto del Sud remoto, quando il sogno dell'industrializzazione di Stato era agli albori). Il dottor Leccese è morto da tempo, inascoltato, ma allora aveva intuito tutto. Non solo il dramma dell'impatto ambientale, bensì l'esistenza di una fitta ragnatela che per anni l'avrebbe protetto. Così scriveva nel suo diario privato: “Quando, per l’aggravarsi della situazione, sono intervenuto, in qualità di Ufficiale Sanitario, con un’ordinanza indirizzata al Direttore del Centro Siderurgico ed al Presidente dell’area di Sviluppo Industriale, è successo il finimondo, perché quest’ultimo, che, tra l’altro, è segretario provinciale della Dc si è sentito leso nella sua insindacabile sovranità. Si ritiene tanto potente da poter condizionare anche le decisioni del Prefetto, come accadeva all’epoca del 'famigerato regime', tra il Federale ed il Prefetto. Per lui non conta la tutela della città da un grave danno ecologico, contano la difesa del prestigio personale e gli interessi di alcuni esponenti politici, che ritengono di poter disporre a loro piacimento delle sorti del nostro territorio, come si trattasse di una colonia africana da sfruttare.” Le basi del disastro ambientale (e della concomitante devastazione politica cittadina) sono state gettate allora. Quella che oggi ci troviamo a fronteggiare sono solo gli effetti di lunga durata. E tuttavia con la privatizzazione dell'Italsider, con l'avvento della gestione Riva, i tratti da “colonia africana” si sono ulteriormente dilatati.
Certo, per capire il nodo irrisolto salute-lavoro, il silenzio di tutti questi anni, occorre analizzare – come molti fanno sui giornali, in queste settimane – la trama intessuta dalle relazioni tra politica, istituzioni e vertici della azienda, annotarsi su un foglio i nomi di quelli che hanno ceduto alle pressioni, ai ricatti, alle lusinghe, e di chi invece ha tenuto la schiena dritta. Eppure è ancora più utile studiare il nuovo universo di relazioni industriali prodotto dai Riva all'interno della stabilimento. È stato questo la principale macchina dello stato d'eccezione tarantino: una gabbia disciplinare, allo stesso tempo arcaica e modernissima, che ha irregimentato un'intera comunità operaia, dispensando premi per chi ubbidiva e punizioni per chi dissentiva.
Fin dalla sua privatizzazione nel 1995, il più grande stabilimento siderurgico italiano, l'Ilva, è stato trasformato in un uno “stato d'eccezione” normativo e disciplinare. È quanto emerge dalle pagine più interessanti dell'inchiesta della magistratura che nell'ultimo anno e mezzo ha dissezionato il sistema-Riva, approdando alle richieste di rinvio a giudizio.
Da quanto si apprende, a governare davvero l'Ilva, in questi anni, non sarebbero stati i dirigenti che ricoprivano ufficialmente le più alte cariche aziendali, bensì i componenti di una struttura parallela, e segreta ai più, posta al di sopra di essi. Una piramide di “fiduciari”, a suo modo efficiente ed innervata nella vita di fabbrica, che aveva il compito di ottenere il massimo profitto, riducendo i costi di produzione, irregimentando gli operai, premiando i “quadri” obbedienti, bruciando materiali inquinanti nei forni, sversando liquami in mare, non ottemperando alle più elementari norme ambientali.
Questa sorta di “governo ombra”, di “Gladio interna” come ha detto un dirigente sindacale, non ha precedenti, almeno in tali forme, nella storia delle relazioni industriali di questo paese. E poiché non è stata formata solo negli ultimi anni, bensì si è costituita come asse portante del siderurgico in tutta la parabola della sua privatizzazione fino alla decisione del commissariamento, merita di essere seriamente analizzata. L'inquinamento che ha appestato Taranto è la manifestazione esterna delle rapporti di forza interni alla fabbrica: della gabbia disciplinare volta a premiare i “dipendenti modello” e a punire ed escludere i dissenzienti, dell'elevata erosione dell'appartenenza sindacale, dell'insicurezza quotidiana del lavoro operaio... Ora di questa gabbia disciplinare, volta alla militarizzazione di una grande fabbrica nel XXI secolo, sembrano emergere con maggiore chiarezza i lineamenti.
La “riforma” delle relazioni industriali secondo “il sistema Ilva”: Che all'Ilva ci fossero dei “fiduciari” lo si sapeva, o almeno lo avevano intuito in molti. Non era così evidente, però, la creazione di un vero e proprio sistema. La struttura parallela dei “fiduciari” aveva tre livelli. Uno, di base, volto al controllo del lavoro più minuto, dei suoi tempi e della sua disciplina. Uno intermedio, di raccordo, e uno – l'ultimo – collocato al vertice, al di sopra dello stesso vertice della dirigenza di fabbrica. Stando a quanto si legge nell'ordinanza, nomi sconosciuti alla città di Taranto e alla stragrande maggioranza dei dipendenti sarebbero stati – con il beneplacito dei Riva che hanno orchestrato il sistema – i reali viceré della fabbrica. Lanfranco Legnani, “direttore-ombra” dello stabilimento. Alfredo Ceriani, responsabile di tutta l'area a caldo, con il compito di massimizzare la produzione. Giovanni Raioli, gestore dell'area parchi minerari e dell'area degli impianti marittimi. Agostino Pastorino, responsabile dell'area ghisa. Enrico Bessone, responsabile della manutenzione. I Riva non hanno mai voluto mettere in discussione la loro struttura-ombra, anzi l'hanno oleata per bene nel tempo, favorendo una totale torsione dei rapporti interni allo stabilimento. Governare una enorme fabbrica rilevata dallo Stato con una struttura occulta avrebbe permesso, almeno nelle intenzioni, di deresponsabilizzare il vero vertice dell'azienda (pagato con premi di produzione, esterni alla normale retribuzione), scaricando su altri i comportamenti illeciti adottati, e soprattutto creando una gerarchia ancora più verticistica, proprio perché non codificata e dai confini incerti. Va da sé che una struttura occulta, così concepita, si sarebbe sottratta (e difatti si è sottratta) al confronto con chi sta dall'altra parte, siano essi gli operai, i sindacati o l'intera città.
Devastazione ambientale a parte, è la creazione stessa del “governo-ombra” a inquietare. Ricorda il 1971, quando emerse una fitta rete di spionaggio interna alla Fiat. Tale rete aveva prodotto in vent'anni oltre 300 mila “schede personali” sugli operai del gruppo. Anche quella struttura, scientificamente volta al controllo dei dipendenti, era occulta, e vedeva il coinvolgimento, oltre che dei vertici aziendali, dei servizi, di agenti di polizia e carabinieri... Nell'Ilva, per certi versi – pur non pervenendo a quelle forme di controllo – si è raggiunto uno stadio ancora peggiore, perché tale struttura ha programmato in toto la produzione dello stabilimento al fine di raggiungere il massimo profitto, spremendo gli impianti senza ammodernarli.
Così il buco nero dell'Ilva si rovescia ancora una volta nella frontiera estrema del capitalismo. Importando all'interno dell'Italia, e dell'Europa, regole “marziane,” forse già presenti in forme non dissimili nelle propaggini neocoloniali dei grandi gruppi industriali del Nord del mondo in Asia o in Africa. Governare l'eccezione industrial-ambientale, facendosi a propria volta stato d'eccezione disciplinare: è questa la lezione del capitalismo ultramoderno dalle parti dell'Ilva. Al pari dell'inquinamento prodotto, delle malattie e dei tumori, la “Gladio interna” andrebbe studiata nei suoi più reconditi dettagli per essere meglio rovesciata. L'Ilva può sopravvivere, portando a termine la complicatissima partita della trasformazione degli impianti, solo espellendo da sé le scorie di tali modi e rapporti di lavoro, incistati per vent'anni nella pelle del drago.
La politica alle spalle A inquinare la storia recente di Taranto, facendo piombare la città in una disgregazione da cui per ora non si intravede alcuna via d'uscita, ci sono due fallimenti. Innanzitutto c'è il fallimento della privatizzazione del grande centro siderurgico dell'Italsider, la grande “svendita” del 1994 da cui nasce il modello-Riva. Negli ultimi due decenni l'Ilva è stato una straordinario laboratorio del lavoro post-moderno. Ma gioverà anche ricordare (in un'epoca in cui trionfa l'ambiguo slogan “destra e sinistra per me pari sono”) che Taranto, negli stessi anni in cui si erigeva il modello-Riva, è stato uno dei principali laboratori della peggiore destra del Mezzogiorno. Dapprima con il trionfo a furor di popolo del telepredicatore-fascista-razzista-colluso con la mafia Giancarlo Cito; in seguito con la deflagrazione (a opera della giunta berlusconiana, successiva a quelle citiane) del più grave crack finanziario che la storia dei nostri enti locali ricordi: 900 milioni di euro di buco di bilancio, un dissesto da cui la città non si è ancora pienamente ripresa. Questi fatti non sono accaduti settanta o ottanta anni fa, sono accaduti negli ultimi quindici anni. Tale laboratorio politico dello sfascio pubblico non era affatto un'oasi impazzita e slegata dal resto del mondo: da una parte ha avuto solidi legami, protettivi o di scambio, con i vertici nazionali del centrodestra; dall'altra i suoi luogotenenti si sono accucciati, senza muovere un solo dito, all'ombra del colosso siderurgico.
Un piccolo excursus. Come ha notato Lorenzo Fanoli in un suo recente saggio (“Burro o cannoni”. Una polemica sull'Ilva, e anche sulla Procura di Taranto, 28 marzo 2014, “Eco della città”) è singolare come la Procura di Taranto, quando ha deciso di indagare sulle eventuali compromissioni della politica si sia limitata oltre ai vertici della Provincia di Taranto, alle due figure del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, al sindaco della città, Ippazio Stefano, cioè gli unici a varare una legge antidiossina o una delibera contro il colosso siderurgico, per poi essere fermati dal governo Berlusconi o dal Tar, senza che una sola parola venisse detta su quel preciso governo e gli eventuali ammorbidimenti nei confronti del gruppo Riva, nonché sul contesto politico che più in generale ha posto le basi di una relazione disastrosa con la grande industria. Solo per la cronaca, non risulta che la Procura di Taranto abbia mai indagato in tal senso prima che Vendola diventasse governatore e Stefano sindaco. Diciamo che l'attivismo giudiziario nei confronti di esponenti politici ha il suo acme in epoca piuttosto recente...
Le due facce del fallimento (privatizzazione all'italiana da una parte; detriti politici della seconda repubblica dall'altra) non sono un caso a sé stante. Sono, a loro volta, la diretta conseguenza di un altro fallimento: l'implosione della prima repubblica e dell'intervento straordinario nel Sud. Il modello-Riva e il modello-Cito sono la risposta scomposta al crollo simultaneo, e consustanziale, delle partecipazioni statali e del pentapartito. Più in profondità, sono la risposta peggiore che potesse esserci alla crisi del meridionalismo novecentesco, e all'esaurirsi delle sue leve di intervento.
Non era affatto sbagliato l'intervento straordinario nella sua fase iniziale, né l'idea di far crescere l'industria siderurgica in un luogo del Sud, come Taranto, già sede di altre esperienze manifatturiere e in quel momento – fine anni cinquanta – attraversata da una violenta crisi di disoccupazione. È stato mortale il suo dilatarsi (specie in presenza di un ceto borghese e imprenditoriale locale apatico, incapace, lazzarone, melmoso, micromunicipale, che non poteva costruire di certo una valida alternativa all'intervento statale). È stato mortale il suo dilatarsi oltre ogni logica di impresa (anche pubblica), con la produzione di una valanga debiti.
Ci sono due fallimenti, dunque, alle spalle del disastro ambientale e delle relazioni di lavoro deteriorate: quello pubblico degli anni ottanta; quello privato dei novanta-duemila. Il plumbeo punto di passaggio dall'uno all'altro è il biennio 1992-94. E anche per questo Taranto è, da molto tempo ormai, uno specchio deformato della irrisolta crisi italiana.
Il difficile crinale del commissariamento Gioverà ricordare tutto questo nel momento in cui si discute delle sorti del commissariamento della grande fabbrica. Certo, separare i destini della fabbrica e della città-fabbrica da quelli di una dirigenza aziendale sotto inchiesta per reati gravissimi e incapace, allo stato attuale, di applicare persino le misure preliminari incluse nell'Aia è stata un'operazione necessaria. Eppure, da qui in avanti occorre tenere a mente alcune cose.
a) Stiamo camminando lungo un crinale strettissimo. Da una parte dobbiamo superare il fallimento della privatizzazione. Dall'altra dobbiamo evitare di ricadere nel fallimento precedente. L'unico modo per farlo è quello di elaborare (culturalmente e politicamente, non solo tecnicamente) una nuova idea di pubblico, di intervento e indirizzo pubblico per il XXI secolo.
b) Nessun commissariamento sarà mai efficace se non verrà inserito all'interno di una rinnovata politica industriale, per il Sud e per l'Italia. Qui non si tratta di mettere in campo l'ennesimo salvataggio in extremis, ma di ripensare – in un momento estremo – ciò che per vent'anni è stato messo in un angolo: la programmazione economica e industriale di un intero paese (deindustrializzato e in recessione) all'interno di uno scenario europeo sempre più complesso.
c) Occorre uscire, ancora una volta, dalle fauci di una contrapposizione al ribasso. Non si può accusare chi solleva la drammatica questione ambientale di favorire la deindustrializzazione e la disoccupazione. Allo stesso tempo, non si può accusare chi vuole difendere i posti di lavoro di voler appestare un'intera provincia. Si può uscire da questa lotta tra opposti estremismi (entrambi i quali ruotano intorno al mito premoderno della immodificabilità del lavoro di fabbrica) chiedendo, pretendendo e realizzando la trasformazione radicale degli impianti, la trasformazione radicale dei rapporti di lavoro interni alla fabbrica, la trasformazione radicale del rapporto tra fabbrica e città (non due entità separate, bensì strettamente intrecciate tra loro). Per quanto difficile da raggiungere, in questo momento non v'è altra soluzione.
Taranto e la Terra dei Fuochi Ha fatto scalpore l'inchiesta dell'“Espresso” pubblicata il 13 novembre 2013, che riportava i dati di una accurata indagine commissionata dalla Us Navy per tutelare la salute dei militari americani di stanza in Campania. E ha fatto scalpore l'intervista rilasciata dal direttore dell'Arpa Puglia Giorgio Assennato allo stesso settimanale e apparsa sul numero successivo. “La nostra legge non ci avrebbe permesso di scoprire quello che hanno fatto gli americani”, ha detto Assennato. “Questo è inaccettabile. E non è un discorso astratto: guardate che sta succedendo a Taranto.” C'è un paradosso di fondo in tutta la vicenda campana. I risultati dell'inchiesta Usa erano noti ai gruppi ambientalisti che monitorano la Terra dei Fuochi sin dal 2011. Al costo di 30 milioni di dollari (cifra che farebbe impallidire qualsiasi ricerca epidemiologica condotta in Italia) la Marina americana ha incrociato perizie diverse, ha indagato sulla sicurezza alimentare e in particolare sulla presenza di sostanze tossiche nell'acqua utilizzata nelle aree in cui “i propri ragazzi” vivono, alla luce dei parametri dell'Epa (l'agenzia ambientale statunitense), sicuramente più rigidi di quelli nostrani. Le misure predisposte di conseguenza, come depurare con un proprio apparato l'acqua fornita dalla rete idrica per l'intera base militare, hanno dato l'immagine plastica di un territorio contaminato, considerato alla stregua delle province mediorientali. Si può anche criticare di eccessivo allarmismo il modo in cui l'inchiesta è stata divulgata. Sta di fatto che essa dimostra tutta la distanza tra i parametri più avanzati al mondo e la capacità di autotutela sanitaria e ambientale del sistema-Italia, specie nel Mezzogiorno.
Assennato ha sottolineato, ancora una volta, come nella nuova Aia (che dovrebbe indicare il processo di trasformazione del siderurgico jonico) la valutazione di danno sanitario elaborato dalla Regione Puglia sia stata depotenziata. Da qui la constatazione: non si può sempre aspettare l'invio dei marines. Tra l'altro, ironia della sorte, quando nel 2004 la Sesta Flotta lasciò Gaeta, si vociferò della possibilità che venisse trasferita proprio a Taranto. Poi quelle voci si rivelarono false e la nuova sede fu Napoli. Ma se le cose fossero andate diversamente, sarebbero state Taranto e l'Ilva ad avere il loro bel rapporto firmato dalla Us Navy, e forse la stessa storia recente del siderurgico avrebbe avuto un esito diverso.
La vicenda, oltre a segnalare ancora una volta come Napoli e Taranto siano l'epicentro della nuova questione meridionale, in bilico tra crisi industriale e devastazioni post-industriali, ripropone con forza un discorso evidente. Come precisato da Assennato, la chiusura dell'Ilva non sarebbe mai e poi mai sinonimo di bonifica, al contrario ci consegnerebbe una nuova Bagnoli, contaminata, senza lavoro e senza molte prospettive terziarie per il futuro. Tuttavia, il processo di ambientalizzazione va monitorato in base a parametri di danno sanitario attualmente solo in parte contemplati dalla decretazione relativa all'Ilva e alla Terra dei Fuochi. Forse la soluzione, anche per evitare il sistematico ricorso a nuovi decreti, può essere quello di rispolverare il vecchio progetto di legge Realacci-Bratti, che prevede l'istituzione di un sistema nazionale di protezione ambientale autonomo e terzo. Le attuali Arpa, oltre a essere divise su base regionale, rischiano di essere troppo dipendenti dalla stesse Regioni.
Non solo occorre mettere in condizione Arpa e Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la ricerca Ambientale) di svolgere il loro compito di monitoraggio in maniera indipendente, potenziando la loro sinergia e valutando sul territorio gli effetti della annunciata trasformazione degli impianti. Bisogna anche realizzare un piano molto più ampio che coinvolga le università e i centri di ricerca in uno studio costante e non episodico delle conseguenze su uomini, donne e bambini del disastro ambientale già consumato. Allo stato attuale, l'inquinamento “già” prodotto dell'aria, dell'acqua, della terra porterà le prossime generazioni – indipendentemente da ciò che verrà fatto – a confrontarsi con l'aumento dei tumori, con il nesso tra diossina e infertilità (sia femminile che maschile), con la crescita di patologie apparentemente distanti dall'inquinamento, ma che studi medici dicono poter essere a questo ricondotti: l'autismo o lo schizofrenia. Ciò vale indipendentemente da qualsiasi cosa si faccia dello stabilimento.
C'è stato un momento, in Italia, in cui la medicina sociale e l'epidemiologia si sono fatte analisi irriducibile dei cicli produttivi, volgendosi non solo alla loro critica, ma alla loro trasformazione sotto il controllo dei lavoratori, i più esposti ai rischi. Da Giulio Maccacaro e Renzo Tomatis (figure oggi troppo presto dimenticate) è stata lasciata una miniera di scritti che andavano in tal senso e mettevano in discussione la stessa organizzazione economica. A Taranto, come in Campania, percorsi del genere sono stati di fatto ostruiti, benché non tutti i medici siano stati silenti e ci sia stato chi, come Alessandro Leccese, l'ufficiale sanitario di stanza a Taranto negli anni in cui l'Italsider venne edificato, aveva intuito per tempo la necessità di far luce.
Quale pubblico? Nel 1920, Gaetano Salvemini scrisse su “l'Unità”, il settimanale da lui diretto, che l'industria siderurgica, per la sua grandezza e la sua complessità, non poteva essere oggetto di un “controllo operaio” diretto (era in corso proprio allora la breve stagione dei consigli di fabbrica), né poteva esser lasciata morire in una delle sue solite crisi, né poteva diventare un buco nero per le banche e per i contribuenti. In quel frangente, in un'epoca di protezionismo siderurgico, e non solo di consigli di fabbrica, un tale intervento statale avrebbe lasciati intatti i problemi da risolvere, rimpinguando invece le casse dei privati che quelle aziende gestivano. L'unica soluzione, scrisse Salvemini, per altro avverso a forme esorbitanti di intervento pubblico, era “statizzare”.
Torna in mente quest'antica polemica politica nei giorni in cui la vicenda Ilva sembra vivere l'ennesima impennata, con la conclusione delle indagini e le richieste di rinvio a giudizio che hanno interessato anche i vertici della Regione. E poiché l'agonia di Taranto (di cui la crisi dell'Ilva è parte preponderante, ma non la esaurisce totalmente) è cosa troppo grande per essere ridotta alla sola, per quanto importante, azione della Procura, occorrerà riflettere su quanto diceva Salvemini circa un secolo fa. Ha scritto Gad Lerner su “la Repubblica” che l'errore di Nichi Vendola (qui parliamo ovviamente di errori politici, l'iter giudiziario ancora in una fase preliminare farà il suo corso) è stato quello di pensare che la Regione avesse il potere di costringere i Riva a un compromesso vincolante al fine di trasformare gli impianti. Di ritenere, insomma, che il gruppo dirigente dell'Ilva potesse rappresentare una forma di capitalismo con cui trattare, mentre intorno montava una protesta più radicale che in buona parte ha scavato un solco profondo con il centrosinistra cittadino, regionale e nazionale. Basta vedere, tra l'altro, il trionfo del M5S in città alle ultime elezioni.
Osservazione acuta, quella di Lerner. Eppure c'è un'obiezione che gli si può muovere. Cosa avrebbe dovuto fare un ente regionale piuttosto isolato, prima dell'agosto del 2012, prima del 2011, quando il governo nazionale non è stato certo duro e intransigente con il Gruppo Riva (e stupisce tra l'altro che la Procura abbia sorvolato sulle responsabilità ministeriali nella concessione della prima Aia, quella estremamente morbida del 2011)? Chiedere la nazionalizzazione del più importante sito industriale pugliese o provare a varare leggi più severe?
Su tale questione andrà esercitato il giudizio storico e politico, non solo quello giudiziario (a meno che non si voglia davvero pensare che debba essere questo a sussumere gli altri due). Oggetto di analisi non sono solo gli ultimi due anni di vita economica e politica cittadina, ma perlomeno l'ultimo trentennio. Tuttavia c'è un'altra osservazione che può essere avanzata. Un conto è dire che il tipo capitalismo che ha preso piede in riva allo Jonio, dopo la privatizzazione, non è riformabile. Altro è dire che la fabbrica nel suo insieme non può essere trasformata, e va pertanto chiusa (in maniera direttamente opposta, cioè, al possibile percorso di risanamento e bonifica appena avviato).
Il futuro della siderurgia Alle spalle della vicenda Ilva, si gioca un complesso confronto italo-tedesco intorno alle sorti della siderurgia europea. Un saggio di Emiliano Brancaccio e Salvatore Romeo uscito sul numero 3/2014 di “Limes”, Piatto d'acciaio, fa il punto della situazione. Nel divario tra i due principali paesi manifatturieri d'Europa, le differenze tra i rispettivi comparti siderurgici sono evidenti. Non è vero, scrivono gli autori, che l'Europa sarà invasa nei prossimi anni dall'acciaio cinese a basso costo, prodotto in barba a ogni norma ambientale. I numeri dicono invece che, negli ultimi anni, “i tedeschi sono riusciti a estendere la propria presenza sul mercato nazionale e sugli altri mercati comunitari, dimostrando una straordinaria capacità di penetrazione a scapito sia degli esportatori extra-Ue che dei concorrenti europei”. Ciò contraddice, in buona sostanza, la tesi secondo cui in Europa non è più conveniente produrre acciaio. Il punto è “come” produrlo: il modello tedesco ha saputo amalgamare criteri di competitività, rispetto dell'ambiente, tenuta del lavoro.
In Italia, invece, si sconta una crisi di sistema di cui l'Ilva è l'epicentro. Non basta solo trasformare gli impianti della grande acciaieria jonica (operazione già di per sé tutta in salita), occorre una strategia successiva agli anni del commissariamento. Che fare, insomma, di quello che rimane il principale sito produttivo italiano all'interno dello scacchiere europeo, mentre gli altri siti della penisola sono attraversati da una forte crisi?
L'impressione è che, in assenza di una riflessione strategica, le stesse operazioni di trasformazione e bonifica rischiano di avvitarsi su se stesse. Serve sicuramente un progetto per la città accanto ai decreti già varati, ma serve anche un progetto generale per l'industria e la siderurgia, in un paese come il nostro che ha visto crollare molti dei suoi settori tradizionali. La crisi dell'Ilva è lo specchio di quella parte del sistema imprenditoriale che non ha saputo rinnovarsi. Proprio per questo, è solo intorno a precisi obiettivi, in un mercato europeo che resterà sempre più competitivo se si vogliono rispettare tutti i necessari parametri ambientali, che può essere organizzato il futuro dello stabilimento jonico.
La cartina al tornasole non è solo la presentazione del prossimo piano industriale che dovrebbe incorporare lo stesso piano ambientale, ma la sua copertura finanziaria. Servono 3 miliardi di euro, ha detto il subcommissario Ronchi. Il percorso si fa incerto. Da una parte c'è l'iter giudiziario, dall'altra la negoziazione dei prestiti con le banche. Nel mezzo la richiesta di un aumento di capitale, dato che non è ancora pienamente certo se si possano utilizzare o meno – e quando – per la trasformazione degli impianti, i circa 2 miliardi di euro sequestrati dalla Procura di Milano al Gruppo Riva per frode fiscale. E qui si aprono squarci sul futuro: chi potrà, in questo frangente, investire sull'Ilva, dal momento che è altamente improbabile che gli stessi Riva lo facciano, ancor più dopo la scomparsa dell'anziano patron Emilio Riva, colui che ha delineato il modello di fabbrica dell'ultimo ventennio?
La domanda inchioda il sistema-Italia, non solo il governo. Eppure va ricordato che nel cuore dell'Europa si continua a produrre acciaio nel rispetto dell'ambiente e dei diritti dei lavoratori, e che le quote di mercato sono addirittura in crescita. La vera domanda che aleggia alle spalle della crisi dell’Ilva è, ancora una volta: quale forma di programmazione pubblica, di indirizzo pubblico, di mera governance, siamo concretamente disposti a sostenere nel XXI secolo, senza ricadere negli errori della partecipazioni statali novecentesche? Non sono in gioco solo le sorti di Taranto, già di per sé molto complicate. È la stessa possibilità di tenere insieme ciò che dovrebbe sempre essere garantito: il diritto alla salute e il diritto al lavoro, per tutti.
Nel presentare i futuri lavori dell’Aia, il subcommissario Edo Ronchi ha annunciato un intervento radicale sul ciclo produttivo dell’acciaio al fine di abbattere l’inquinamento: “utilizzeremo pallets di ferro preridotti e metano al posto del carbon coke. La sperimentazione è già cominciata in acciaieria, la estenderemo agli altiforni, e vogliamo produrre due milioni di tonnellate di acciaio l'anno con questo sistema”. Due milioni di tonnellate su una produzione complessiva che non dovrebbe superare le otto milioni di tonnellate all'anno sono una fetta considerevole. Se sarà effettivamente garantito tale percorso almeno per una parte della produzione (anche se non sono state ancora stabilite le eventuali condizioni per l'approvvigionamento del gas), accanto ovviamente alla copertura dei parchi e alle altre trasformazioni strutturali per l'attuale ciclo di produzione, nessuno potrà dire che la nuova Aia sia stata solo un bluff: l’area a caldo ridurrebbe di netto il suo impatto. E il clima incandescente di Taranto potrebbe decongestionarsi.