Prigionieri: la tragedia del carcere di Rebibbia del 18 settembre

L'intervento di Stefano Anastasia, Garante dei Detenuti del Lazio, sulla tragica morte dei due bambini nel carcere di Rebibbia

Stefano Anastasia, Garante dei Detenuti del Lazio

Era in carcere da poco più di venti giorni, con i suoi due bambini. Ora è in isolamento, guardata a vista, protetta dalle altre e da se stessa. La sua bambina è morta, il più grande speriamo di no. Il gergo burocratico-penitenziario catalogherà anche questo tra gli “eventi critici” accaduti quest’anno in carcere. Ma quel che è successo ieri nella Casa circondariale di Rebibbia femminile non ha eguali: una madre che uccide la figlia di sei mesi e riduce in fin di vita il fratellino di poco più grande non si era ancora mai visto. Di fronte a una simile tragedia si resta senza parole, eppure bisogna farsi forza e guardare fino in fondo quel che essa ci dice. Non certo per dedicarsi retrospettivamente al gioco delle responsabilità. Piuttosto per capire cosa sia avvenuto e cosa si sarebbe potuto fare per prevenirlo. Non più, ovviamente, per quella mamma e per quei due bambini, ma per quelli che verranno.

Tornano così in fila una serie di nodi irrisolti del nostro sistema penitenziario: la detenzione per droga, la sofferenza per la privazione della libertà, le difficoltà di comunicazione degli stranieri e poi, infine, l’effetto paradossale di una norma umanitaria, che consente alle madri di tenere i propri figli piccoli e piccolissimi in carcere, per evitare che subiscano il trauma della separazione dalla figura materna, ma che poi li costringe a crescere in un ambiente innaturale, confinato da una serie successiva di muri, sbarre, porte e cancelli. Ognuno di questi nodi andrebbe affrontato e sciolto. Quella madre (e quante altre?) non aveva alcuna alternativa alla detenzione? Non si poteva proprio fare a meno di tenerla in carcere con i suoi due bambini? E quanto pesano, e quanto hanno pesato nella sofferenza di quella donna, le difficoltà di comunicazione di chi non parla la lingua del posto in cui si trova? E, infine, la sua sofferenza, e quella di mille altri, come viene presa in carico dai servizi di salute mentale? È rilevata per tempo? È seguita da un’offerta terapeutica adeguata? È segnalata nella sua eventuale incompatibilità con la detenzione?

Non sono, queste, domande di oggi, ma anche di ieri e dell’altro ieri. E non sono domande prive di risposte. Anzi, spesso le risposte sono già in leggi vigenti, come nel caso delle case famiglia per detenute madri. Oppure sono nelle proposte, anche istituzionali, avanzate nel tempo. Bisognerebbe riscoprirle, quelle risposte, se solo si avesse il coraggio di superare l’ossessione carceraria, se solo non si stesse approvando una riforma dell’ordinamento penitenziario che ignora ognuna di quelle domande.

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