Riportiamo di seguito l'intervista di Roberto Ceccarelli a Chiara Saraceno a proposito del reddito di cittadinanza pubblicata dal manifesto del 18 gennaio che puntualizza con estrema chiarezza gli elementi critici e discriminatori contenuti nel Reddito di Cittadinanza varato dal governo populista.
Professoressa Chiara Saraceno, il «reddito di cittadinanza» è la «fondazione di un nuovo Welfare» come sostiene il ministro del lavoro Luigi Di Maio? È un’esagerazione. Nella versione più positiva, si può dire che è aggiunto al welfare quello che c’è già da tempo altrove: una protezione per chi si trova in povertà. È un completamento che non sottovaluto. Da più di 30 anni promuovo questa idea, ma certo non applicata in questo modo.
Cosa non la convince? La mescolanza di due politiche diverse: quelle contro la povertà e quelle di sostegno al reddito. In generale, il problema dell’assenza di lavoro non deriva dal fatto che offerta e domanda non si incontrano, ma dal fatto che non c’è abbastanza domanda di lavoro. È lo stesso errore di Renzi: si sta facendo una politica dell’offerta. Poi c’è l’idea di obbligare i poveri a lavorare perché altrimenti restano seduti sul divano in una vita in vacanza. È un linguaggio indecente. È una mancanza di rispetto. È come se non si sapesse che i poveri assoluti hanno spesso in famiglia almeno un membro che lavora. E ci sono anche persone che lavorano in maniera intermittente e quelle che non possono lavorare perché sono vulnerabili. I poveri, per definizione, non sono fannulloni da pungolare.
Esistevano alternative? Allargare, ad esempio, il «reddito di inclusione» (ReI), facendo tesoro dei suoi aspetti più problematici per fare qualcosa di meglio. Invece hanno deciso di fare una misura nuova negando il pregresso. È un difetto di arroganza e di ignoranza: rifare tutto senza imparare dagli errori precedenti. Poi, a guardarci dentro, questo «reddito» non è diverso dal «Rei». Ciò che lo rende diverso è l’obiettivo molto lavoristico e una governance molto delicata. Non so se hanno idea di quanto tempo sarà necessario.
Quanto secondo lei? Già oggi è difficile che si parlino l’anagrafe e i servizi di uno stesso comune. Qui si parla di mettere d’accordo venti regioni, e le province, che hanno in mano le politiche del lavoro; i comuni, l’Inps, le agenzie interinali, gli enti bilaterali. Tutto intermediato da due piattaforme digitali. È un’idea astratta: basta una «app» e tutto viene risolto. È come se non avessero idea delle difficoltà in campo. Con questa fretta palingenetica di fare cose nuove, che nuove non sono, e di farle prima delle elezioni europee, si rischia invece di perdere un’occasione d’oro.
In Germania ci sono 110 mila persone assunte nei «job center». In Italia sono state annunciate le 4 mila assunzioni dei «navigator» che si aggiungeranno agli 8 mila impiegati dei centri dell’impiego. Basteranno? L’unica cosa certa oggi è che ci saranno 4 mila posti in più, sia pure precari. È una storia antica: l’assistenza produce lavoro per chi lavora nell’assistenza. È sacrosanto che i centri per l’impiego siano riformati, ma allora facciamolo seriamente, quando siamo pronti. Non improvvisiamo con persone che, una volta assunte, ed è da capire quando, dovranno essere formate a svolgere un lavoro complesso come quello sociale.
Cosa pensa dell’obbligo ad accettare lavori a 100, 250 km e poi su tutto il territorio nazionale? Trovo paradossale che due partiti che hanno promesso agli insegnanti di ruolo che li avrebbero contrastato quella che è stata chiamata una «deportazione», diano per scontato che i poveri devono andare lontano per trovare un lavoro. Così i poveri diventano meno cittadini degli altri e in cambio dell’assistenza perdono diritti. Anche il «consiglio» di prendere la prima offerta entro 100 chilometri fa pensare: ma ci ricordiamo che il costo della vita per uno che vive in Sicilia è un conto, e quello per chi vive a Milano è più alto? Era sbagliato chiamarlo all’inizio «reddito di cittadinanza», perché non è universale, oggi ci sono ancora meno ragioni per chiamarlo così.
Cosa pensa dell’obbligo di lavorare 8 ore a settimana per gli enti locali? Si rischia di sostituire lavoratori con contratto? Il rischio esiste, anche se forse contenuto. Piuttosto temo che siano corvée del lavoro, un volontariato obbligatorio che si aggiunge agli impegni già gravosi previsti dalla formazione. Ancora una volta si preferisce l’idea dell’obbligo a quella della libertà di partecipare e di collaborare alla società. In più c’è il rischio di avere meno tempo di formarsi, cercarsi un lavoro, stare in famiglia.
Cosa pensa della minaccia di punire fino a sei mesi di carcere le dichiarazioni false? È uno scandalo per un governo che ha appena fatto un condono. Sembra che l’idea sia: se sei povero, sei più brutto e cattivo di un evasore fiscale.
Cosa pensa dell’obbligo a spendere il sussidio ogni mese e della penalità su quello successivo nel caso in cui questo non avvenga? Toglie ogni libertà ed è controproducente. Già queste persone non hanno liquidità, e poi in molti casi la povertà si accompagna anche alla difficoltà di gestire un bilancio. È importante sapere quale spesa faccio oggi, e quale domani. Se compro le scarpe a mio figlio, allora rinuncio alle sigarette. Così, invece, se questa persona deve spendere tutto, come dice Di Maio, per immettere liquidità nell’economia, dov’è allora la capacità e la dignità del povero? Va in secondo piano. Chiunque si sia occupato di assistenza ai poveri sa che c’è una quota che non sa gestire il bilancio. Se sono poveri è perché non hanno risparmi. Possiamo incoraggiarli a risparmiare e ad affrontare le spese più grosse? Questo aspetto va valutato per evitare anche i rischi di fare incorrere queste persone in comportamenti che, dicono, saranno sanzionati.
Cosa pensa dell’esclusione degli stranieri che risiedono da meno di 10 anni in Italia?
È una norma xenofoba. In più è stata presentata come un modo per risparmiare. Stiamo pensando di persone residenti, integrate, che lavorano. Ricordo che il 30% dei poveri assoluti sono concentrati in queste famiglie.
Dal testo del decreto emerge anche il riconoscimento della priorità ai disoccupati di meno 26 anni, disoccupati da meno di due. Non si rischia di creare discriminazioni in una platea potenziale differenziata come quella dei poveri assoluti? Certo. Si rischia di creare due problemi. Il primo può essere generato dal fatto che è stata mantenuta la soglia dei 780 euro, quella stabilita nel 2013. È un dato che può cambiare con la congiuntura economica e può riguardare, ad esempio, una persona non anziana che vive in una città del Nord. A sud questa soglia può essere inferiore. Come del resto lo è tra città vicine: a Milano è più alta di Como, a Napoli può essere più alta rispetto a Matera. Per stare dentro ai costi in realtà si è creata una scala di equivalenza che è rivolta alle famiglie numerose. C’è un altro problema: si riconoscono all’azienda che assume un beneficiario del reddito l’equivalente delle mensilità residue. Questo vuole dire che è i più facili da occupare, i giovani ad esempio, saranno i preferiti perché portano una dote più ampia. I più difficili avranno meno dote e saranno meno ricercati: gli anziani che non lavorano da più tempo, le donne con figli, coloro che hanno meno esperienze. Le ricerche internazionali lo mostrano: chi esce prima dall’assistenza sono quelli che hanno più doti personali e di conoscenza. Gli altri si troveranno alla fine dei 18 mesi con nessuna offerta e li manderanno lontano. A questo punto, a parità di condizioni, al datore di lavoro converrà assumere una persona per prendere una quota più vicina ai 18 mesi di “reddito”. È una competizione tra poveri che rischia di mettere in povertà chi non ha bisogno di chiedere il reddito.
Di che tipo di reddito abbiamo bisogno? In termini utopistici sono favorevole al reddito di base perché aumenta la libertà. Ma non risolve tutti i problemi: tra l’altro, abbiamo bisogno di salari dignitosi, indennità di disoccupazione decorosa, un assegno fino ai 18 anni dei figli al posto dei bonus attuali anche per garantirgli un’autonomia e una riforma delle detrazioni fiscali che spesso penalizzano i cosiddetti «incapienti».